Tenar rimase seduta ad alimentare le fiamme e a guardare il fulgore delle costellazioni invernali, da orizzonte a orizzonte, finché si assopì, stordita dallo splendore e dal silenzio.
Si svegliarono entrambi. Il fuoco si era spento. Le stelle che lei aveva osservato tanto a lungo erano lontane, oltre le montagne, e a oriente ne erano sorte altre. Fu il freddo a destarli, il freddo asciutto della notte del deserto, il vento simile a una lama di ghiaccio. Un velo di nubi stava coprendo il cielo, da sudovest.
Il legno che avevano raccolto era quasi finito. — Andiamo — disse Ged. — Non manca molto all’alba. — Gli battevano i denti, così forte che Tenar faticava a capirlo. Si avviarono, salendo il lungo pendio verso occidente. Gli arbusti e le rocce spiccavano neri nella luce delle stelle, e camminare era facile come durante il giorno. Dopo un poco, il movimento li riscaldò: non rabbrividivano più, non erano costretti a procedere chini. Al levar del sole erano giunti alla prima altura delle montagne occidentali, che fino a quel momento avevano circondato l’esistenza di Tenar.
Si fermarono in un boschetto, dove le frementi foglie dorate pendevano ancora dai rami degli alberi. Ged le disse che erano abeti; lei non conosceva altri alberi che i ginepri, e i pioppi malaticci alle sorgenti del fiume, e i quaranta meli nel frutteto del Luogo. Un uccellino, tra gli abeti, pigolava «dii, dii», con una vocina sottile. Sotto gli alberi scorreva un ruscello, stretto ma poderoso, che gridava forzuto tra le rocce e le cascatelle, troppo rapido per gelare. Tenar ne aveva quasi paura. Era abituata al deserto, dove tutto è silenzioso e si muove lentamente: fiumi torpidi, ombre di nuvole, avvoltoi che volano in cerchio.
Si divisero un pezzo di pane e un’ultima fetta sbriciolata di formaggio, per colazione; riposarono un po’, e proseguirono.
A sera erano arrivati piuttosto in alto. Il cielo era coperto, e spirava un vento gelido. Si accamparono nella valle di un altro ruscello, dove c’era legna in abbondanza, e questa volta accesero un robusto fuoco di ciocchi che poteva riscaldarli veramente.
Tenar era felice. Aveva trovato il nascondiglio delle noci di uno scoiattolo, messo allo scoperto dalla caduta di un albero cavo: un paio di libbre di splendide noci e di altri frutti dal guscio levigato che Ged, non conoscendone il nome kargano, chiamava ubir. Lei ne spaccò una con due pietre, porgendo all’uomo metà del gheriglio.
— Vorrei che potessimo rimanere qui — disse, guardando la valle ventosa. — Questo posto mi piace.
— È un bel posto — riconobbe Ged.
— Qui non verrebbe mai nessuno.
— Non molto spesso. Io sono nato tra le montagne. Sulla montagna di Gont. Le passeremo accanto, facendo vela per Havnor, se prenderemo la rotta settentrionale. È bellissima, d’inverno: sorge tutta bianca dal mare, come un’onda più alta. Il mio paese era accanto a un ruscello come questo. Tu dove sei nata?
— Nella parte settentrionale di Atuan, credo. Non ricordo.
— Ti hanno portata via così piccola?
— Avevo cinque anni. Ricordo le fiamme in un focolare… e nient’altro.
Lui si passò la mano sul mento, che, sebbene fosse diventato un po’ irsuto per la barba rada, almeno era pulito: nonostante il freddo, si erano lavati nei ruscelli montani. Si passò la mano sul mento, con aria pensierosa e severa. Tenar lo guardò, e non avrebbe saputo dire cosa sentiva in cuore mentre l’osservava nella luce del fuoco, nel crepuscolo della montagna.
— Cosa farai, a Havnor? — chiese Ged: e lo chiese al fuoco, non a lei. — Tu sei… rinata veramente: più di quanto immaginavo.
Tenar annuì, con un lieve sorriso. Si sentiva appena nata.
— Dovresti almeno imparare la lingua.
— La tua lingua?
— Sì.
— Mi piacerebbe.
— Bene, allora. Questa è kabat. - Ged buttò una pietruzza nella falda della nera veste di lei.
— Kabat. È nella lingua dei draghi?
— No, no. Tu non vuoi operare incantesimi: vuoi parlare con gli altri uomini, e donne!
— Ma come si chiama una pietruzza, nella lingua dei draghi?
— Tolk - rispose lui. — Ma non voglio fare di te la mia apprendista maga. Ti sto insegnando la lingua che la gente parla nell’arcipelago, nelle Terre Interne. Io ho dovuto imparare la tua lingua, prima di venire qui.
— La parli in modo strano.
— Senza dubbio. Ora, arkemmi kabat. - E Ged tese le mani perché lei gli desse la pietruzza.
— Devo venire a Havnor? — chiese Tenar.
— E dove andresti, altrimenti?
Lei esitò.
— Havnor è una città bellissima — disse lui. — E tu le porti l’Anello, il segno della pace, il tesoro perduto. A Havnor ti accoglieranno come una principessa. Ti onoreranno per il grande dono che porti, e sarai la benvenuta. In quella città vive un popolo nobile e generoso. Ti chiameranno «la dama bianca» per la tua pelle chiara, e ti ameranno ancora di più perché sei così giovane. E perché sei bella. Avrai cento vestiti come quello che ti ho mostrato con l’illusione, ma veri. Sarai trattata con elogi e gratitudine e amore, tu che non hai mai conosciuto altro che la solitudine e l’invidia e la tenebra.
— C’era Manan — disse Tenar, in tono difensivo, con le labbra che tremavano un poco. — Mi voleva bene, ed era sempre buono con me. Mi proteggeva come poteva; e per questo io l’ho ucciso. È precipitato nel nero abisso. Non voglio andare a Havnor. Non voglio andarci. Voglio rimanere qui.
— Qui… in Atuan?
— Tra le montagne. Dove siamo ora.
— Tenar — disse lui, con quella voce quieta e grave, — allora resteremo. Io non ho più il mio coltello, e se nevicherà sarà dura. Ma finché potremo trovare cibo…
— No. So che non possiamo restare. Era una sciocchezza — replicò Tenar, e si alzò, spargendo intorno gusci di noci, per aggiungere altra legna al fuoco. Era esile ed eretta, nella veste e nel mantello di lana nera, laceri e macchiati. — Tutto quello che so, ormai non serve a nulla. E non ho mai appreso altro. Cercherò d’imparare.
Ged distolse lo sguardo, rabbrividendo come per una fitta di sofferenza.
Il giorno dopo superarono la sommità della catena lionata. Nel valico spirava un vento crudo, carico di neve pungente e accecante. Solo quando furono discesi per un lungo tratto, sotto le nubi delle vette, Tenar vide la terra oltre la muraglia montuosa. Era tutta verde: verde di pinete, di prati, di campi seminati e di maggesi. Perfino nel cuore dell’inverno, quando i boschetti erano spogli e le foreste piene di rami grigi, era una terra verde, umile e mite. La guardarono da un alto declivio roccioso, sul fianco della montagna. Senza parlare, Ged indicò verso occidente, dove il sole stava scendendo dietro una densa spuma turbinante di nuvole. Il sole era nascosto, ma all’orizzonte c’era uno scintillio simile al bagliore delle pareti di cristallo della cripta, una specie di baluginio gioioso proveniente dall’orlo del mondo.
— Cos’è? — chiese la ragazza; e lui: — Il mare.
Poco dopo, lei vide una cosa meno meravigliosa ma pur sempre mirabile. Raggiunsero una strada e la seguirono; e al crepuscolo li portò in un paesino: dieci o dodici case sgranate lungo la via. Lei guardò allarmata il suo compagno, quando comprese che si stavano avventurando tra gli uomini. Guardò, e non lo vide. Accanto a lei, nelle vesti di Ged e con la sua andatura e con le sue scarpe, camminava un altro uomo. Era bianco di pelle, e non aveva barba. Lui la guardò; i suoi occhi erano azzurri. Ammiccò.
— Riuscirò a ingannarli? — chiese. — Come sono le tue vesti?
Tenar si guardò. Aveva addosso la gonna e la giubba marrone delle donne di campagna, e un grande scialle di lana rossa.
— Oh — disse, fermandosi. — Oh, tu sei… sei Ged! — E quando ne pronunciò il nome lo vide con perfetta chiarezza: il volto scuro e sfigurato che conosceva, gli occhi scuri; eppure là stava lo sconosciuto dal volto latteo.