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— È vero. Sai, avevo sempre sentito dire che la vostra era una razza che viveva a lungo, ma non mi ero resa conto che rimaneste tanto giovani — osservò Lovyan, con un nodo alla gola. — Oppure le antiche leggende sono vere e voi vivete in eterno?

— Non in eterno, ma per un tempo dannatamente lungo. E invecchiamo, ma soltanto quando si avvicina la morte. È così che sappiamo che è arrivato il momento dell’ultimo viaggio.

— Davvero? — Lovyan distolse lo sguardo e in un gesto inconscio si toccò le rughe che le segnavano le guance. — Allora forse noi abbiamo la sorte migliore, perché anche se invecchiamo presto non siamo oppressi dalla conoscenza del momento in cui moriremo.

Devaberiel sospirò, ricordando il proprio dolore quando i capelli di suo padre avevano cominciato a tingersi di bianco e il suo vigore fisico a svanire.

— In vero — replicò, — può darsi che siate voi i più fortunati.

Poi si allontanò in fretta perché sentiva in gola il nodo del pianto.

Quando lasciarono la fortezza, non disse una sola parola agli altri, che lo lasciarono al suo silenzio per tutto il tragitto fino alla riserva di caccia. Là il guardaboschi di Lovyan li accompagnò in un’aperta valletta solcata da un ruscello e piena di erba per i cavalli, e dopo aver commentato che quell’anno i daini abbondavano si affrettò ad andarsene per non passare altro tempo con il Popolo dell’Ovest. Rimasti soli i tre montarono la tenda rossa, impastoiarono i cavalli e raccolsero un po’ di legna da aggiungere alla loro scorta di sterco secco per il fuoco. Dal momento che Devaberiel continuava a rimanere in silenzio, ad un certo punto Calonderiel non riuscì più a sopportare il suo atteggiamento.

— Venire qui è stata davvero una cosa stupida — commentò.

— Il capo guerriero è universalmente noto per il suo tatto — scattò Devaberiel. — Per il Sole Oscuro, perché devi versare fiele nel boccale di un uomo assetato?

— Ecco, mi dispiace, ma…

— Stai dimenticando l’anello d’argento — intervenne Jennantar. — Il dweomer ha detto che deve essere consegnato a Rhodry.

— Questo è vero — ammise Calonderiel, — quindi suppongo che Dev abbia qualche giustificazione.

Ringhiando fra sé, Devaberiel andò a prelevare un otre di sidro dal travois e Jennantar lo seguì, accoccolandosi a terra accanto a lui.

— Non prendere sul serio tutto quello che Cal dice. Lui è fatto così.

— Sono dannatamente contento di non fare parte di uno dei suoi squadroni.

— Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi al suo modo di fare. Quello che mi chiedo è però come farai per far avere quell’anello al tuo ragazzo. Hai qualche idea in proposito?

— Ci stavo pensando mentre venivamo qui. Sai, ho un altro figlio che ha per madre una donna di Deverry e che somiglia più alla razza materna che alla nostra.

— Ma certo… Ebay — convenne Jennantar, con espressione però preoccupata. — Possiamo però fidarci di lui al punto di consegnargli l’anello?

— So cosa stai pensando e… sì, ho i miei dubbi in proposito. Dèi, è proprio un ragazzo selvatico! Forse non avrei mai dovuto toglierlo a sua madre, ma quella povera ragazza non era in grado di mantenere un figlio e suo padre era livido di rabbia per il fatto che lei ne avesse avuto uno. A volte non riesco proprio a capire questi uomini di Deverry: non si devono prendere cura loro dei neonati, giusto, quindi che importava a quel tizio se sua figlia ne aveva avuto uno? In ogni caso, se ricorressi alla mia autorità di padre per ordinare ad Ebay di portare l’anello a suo fratello lui senza dubbio lo farebbe. È proprio il genere di selvaggia avventura che piace a lui.

— Sai dove si trova?

— No, ed è questo il vero problema, giusto? Con quel ragazzo non si può mai sapere. Dovrò semplicemente far circolare la voce che voglio vederlo e sperare che lui ne venga informato.

A quell’epoca la città di Cerrmor era cresciuta fino a contare circa centoventimila abitanti, e non soltanto si allargava lungo il fiume, ma contava anche parecchie splendide case che i ricchi mercanti avevano fatto costruire sulle colline sovrastanti, lontano dal chiasso e dalla sporcizia delle vie cittadine. La fortezza in cui un tempo Glyn aveva regnato era stata distrutta circa cento anni prima e al suo posto ne era stata edificata una nuova e ancora più grande per i gwerbret di Cerrmor.

Vicino al fiume, tuttavia, si allargava una sezione dell’abitato che non aveva nulla di splendido: bordelli, locande da poco prezzo e taverne sorgevano gli uni accanto agli altri in un labirinto di strade tortuose e di vicoli in cui i cittadini per bene non si addentravano mai, con la sola eccezione delle guardie del gwerbret, che vi si recavano più spesso di quanto gli abitanti avrebbero voluto. Quel quartiere era chiamato la Sentina.

Ogni volta che si recava nella Sentina, Sarcyn camminava sempre in fretta, con lo sguardo in continuo movimento e la propria aura talmente serrata intorno a sé che il dweomer rendeva estremamente difficile accorgersi di lui. Non era davvero invisibile… chiunque avesse puntato dritto verso di lui lo avrebbe visto… ma piuttosto non attirava l’attenzione, soprattutto se si teneva rasente ai muri o nelle zone d’ombra. In quel particolare pomeriggio il cielo era coperto e più di una persona andò a sbattergli contro nel passargli accanto, inconsapevole di dividere la strada con qualcun altro; nonostante quelle precauzioni, Sarcyn tenne però sempre la mano sull’elsa della spada.

Le vie cominciavano ad affollarsi in virtù dell’ora tarda: marinai con la paga da spendere si aggiravano senza una meta precisa per le strade, i venditori ambulanti offrivano cibo a poco prezzo e chincaglierie ancor meno costose, e c’erano già in circolazione alcune prostitute, del genere battezzato «acciottolato», perché il solo posto che avevano dove portare gli eventuali clienti era un vicolo buio. Qua e là Sarcyn vide gruppetti di marinai del Bardek, riconoscibili dal volto bruno decorato con disegni ordinati e dai capelli scuri che erano stati oliati in previsione di quella notte di libera uscita. Una volta, sei guardie lo oltrepassarono in formazione serrata e con i randelli pronti, e Sarcyn s’infilò subito in un vicolo, restando nascosto fino a quando non furono passate per poi riprendere il cammino con passo veloce nel labirinto di strade e di vicoli. Anche se era rimasto a lungo lontano da Cerrmor conosceva bene la Sentina, perché era nato là.

Finalmente raggiunse la sua destinazione, una tonda casa di pietra a tre piani con il tetto coperto da paglia cambiata di fresco e con le pareti ordinatamente imbiancate: Gwenca si poteva permettere di mantenere il proprio bordello in buone condizioni perché aveva clienti che appartenevano ad una classe migliore rispetto ai semplici marinai. Soffermandosi davanti alla porta, Sarcyn liberò la propria aura ed entrò quindi nella taverna che occupava il piano terra. Disposti intorno alla scala a chiocciola centrale c’erano alcuni tavoli di legno e un fuoco di torba ardeva nel grande camino per riscaldare l’ambiente, perché le giovani donne sedute sulle panche coperte da cuscini erano nude oppure coperte appena da trasparenti tuniche di velo del Bardek. Una ragazza che indossava soltanto una pezza di seta nera legata intorno ai fianchi si affrettò ad avvicinarsi al nuovo venuto; i suoi occhi erano truccati con khol del Bardek e i suoi lunghi capelli biondi profumavano di rose.

— Era da molto tempo che non ti vedevamo, Sarco — disse. — Ne hai?

— Sì, ma sarà la tua padrona a distribuirla. Dov’è Gwenca?

— In cantina, ma non me ne potresti dare appena un poco adesso? Se lo farai, potrai venire a pescare nel mio secchio.

— Non ti darò nulla fino a quando non me lo dirà la tua padrona.

Intanto il taverniere aveva spostato due botti di birra dalla curva della parete, sollevando una botola che sembrava dare accesso ad una normale cantina. In basso c’erano una profusione di botti di sidro e di birra, e file di prosciutti pendevano dal soffitto insieme a reti piene di cipolle… ma sul lato opposto alla botola c’era una porta. Quando Sarcyn bussò ad essa, una sepolcrale e ringhiante voce femminile rispose chiedendo di chi si trattava.