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Holland premette il bottone per rispondere e si portò il cellulare all’orecchio. In quel momento incrociò lo sguardo di Stone e gli fece segno di no con la testa.

Sophie stava ancora piangendo, quando venti minuti dopo lui entrò in casa.

«Cosa c’è?» chiese, passandole un braccio intorno alle spalle e conoscendo in anticipo la risposta.

«Nulla. Mi dispiace, so che non avrei dovuto chiamarti…» Le parole gli si infilarono nel colletto insieme alle lacrime di lei.

«È tutto a posto, non preoccuparti. Ascolta, ho solo un quarto d’ora, ma possiamo mangiare qualcosa insieme. Tornerò al lavoro quando ti sentirai più calma.»

Mancavano meno di tre mesi al parto. Era facile imputare agli ormoni quegli sbalzi di umore settimanali, ma Holland sapeva che c’era anche dell’altro. Sapeva che Sophie aveva paura. Paura della scelta che lui avrebbe fatto tra lei e il lavoro. Paura che lui si sentisse costretto da lei a fare quella scelta. Paura che il bambino non bastasse a convincerlo a scegliere lei.

Holland sapeva tutto questo perché anche lui aveva paura. Più di lei.

Si sedettero sul divano e rimasero abbracciati finché Sophie si fu calmata. Holland le parlò a bassa voce, sentendo il contatto con la sua pancia dura, in cui cresceva il bambino, e tenendo d’occhio lo scorrere dei minuti sul display del videoregistratore di fronte a loro.

«Thorne.»

«Buongiorno, sono Eve Bloom.»

Lui ci mise qualche secondo a ricordare dove aveva già sentito quel nome e quella voce. «Oh, buongiorno. Mi scusi, ero distratto. Pensavo già al pranzo.»

«Ho chiamato nel momento sbagliato? Se è così…»

«No, no, va benissimo. Che cosa posso fare per lei?»

«Oh, ecco… volevo sapere come stavano andando le indagini. È una cosa stupida, visto che non ho la più pallida idea di cosa stiate cercando, ma… ero curiosa di sapere se la cassetta che avete prelevato dal mio negozio vi ha aiutati in qualche modo a risolvere il caso.»

Thorne ricordava la nota divertita nella voce della donna. E stavolta fu contento di sentirla.

«Capisco, ma io avrei dovuto trovarmi in un posto già dieci minuti fa…»

«Non c’è alcun problema, non intendevo disturbarla adesso…»

«Come?»

«Vogliamo pranzare insieme, sabato? Lei potrà farmi qualche insulsa domanda sulle segreterie telefoniche e, con la scusa che io sto ancora collaborando con la polizia nelle indagini, mettere tutto in rimborso spese. Va bene a mezzogiorno e mezzo?»

Thorne chiuse la comunicazione pochi minuti dopo, proprio mentre Yvonne Kitson entrava in ufficio. «Come mai quel sorriso?» gli chiese l’ispettrice.

«Se lo scordi, signor Thorne. Non ho nessuna intenzione di mangiare zampe d’anatra.»

Il fatto che Dennis Bethell fosse grasso come un maiale e avesse una voce da ragazzina del coro, faceva sembrare un po’ ridicola ogni cosa che diceva.

Il ristorante era stata un’idea di Thorne. L’ultima volta si erano visti in un pub e la voce di Dennis, come spesso accadeva, aveva attirato non poco l’attenzione. Un pranzo in un posto tranquillo era sembrato a Thorne un’idea migliore, anche perché quel ristorante nel cuore di Chinatown era la sua passione. Si chiamava New Moon e serviva il miglior dim sum della città. Thorne amava il rituale quasi più del cibo. Si divertiva a vedere quelle vecchie donne dall’aspetto scontroso che spingevano carrelli avanti e indietro e gli piaceva fermarle, chiedere loro di sollevare il coperchio dei vassoi e poi scegliere cosa mangiare.

Thorne aveva dovuto spiegare questo sistema a Bethell, il quale, quando lui era arrivato nel locale con venti minuti di ritardo, se ne stava seduto in un angolo con lo sguardo confuso. Non aveva certo faticato a riconoscerlo. Bethell era alto un metro e novanta e aveva un fisico da lottatore, i capelli ossigenati e induriti dal gel e una quantità di gioielli d’oro. In un ristorante in cui la clientela era quasi tutta cinese saltava decisamente all’occhio. Quel giorno indossava pantaloni mimetici e una maglietta blu con la scritta «Bitch».

«Vada per la zuppa di pinna di pescecane e tutto il resto. Ma le zampe d’anatra, no. Che orrore…»

«Rilassati, Kodak» disse Thorne, sorridendo alla vecchia cinese che stava sollevando un altro coperchio di bambù. «Ordino io per te.»

Mentre mangiavano, chiacchierarono per un po’ del più e del meno. Thorne voleva mettere il suo uomo a proprio agio, ma anche godersi il viavai del ristorante.

A un certo punto, dopo essersi infilato in bocca un gambero pastellato, spinse attraverso il tavolo la foto di Jane Foley. Bethell si pulì le dita dalla salsa di soia e la prese in mano.

«Notevole» disse. «Davvero notevole.»

Thorne sapeva che si riferiva alla qualità della foto e non alla modella. Da pornografo incallito qual era, le donne nude non gli facevano più un grande effetto.

«Sapevo che ti sarebbe piaciuta» disse Thorne.

«Già, davvero ben fatta. Chi l’ha scattata?»

«A dire il vero, Kodak, pensavo che se c’è qualcuno in grado di scoprirlo, quello sei tu.»

Continuarono a chiacchierare. Bethell raccontò che gli affari andavano a meraviglia. All’inizio si era sentito minacciato dalla pornografia via Internet, ma ora la sua attività prosperava come non mai. Le foto delle sue serie intitolate Barnyard, del 1983, venivano scaricate continuamente. Il nome di Bethell era diventato quasi leggendario tra gli appassionati di pornografia in Rete.

Le riviste porno di alta qualità di Dennis Bethell facevano arrapare gli uomini fin dagli anni in cui Thorne era appena entrato in polizia. Dal soft all’hard più spinto, Bethell esprimeva il suo genio in tutto ciò che implicava obiettivi e capezzoli. Era innocuo e si era rivelato una fonte affidabile per anni. A Thorne sembrava un eccentrico da vaudeville, con quel fisico da lottatore, l’assurdo taglio di capelli e lo slogan “Niente bambini!”.

Bethell fissò con attenzione la foto, la spostò sotto la luce per esaminarla meglio e disse: «Sì, forse…».

«“Sì, forse” non è abbastanza, Kodak.» Thorne alzò un dito per attirare l’attenzione della donna dietro il bancone del bar, poi sollevò la bottiglia vuota di Tsing Tao, ordinandone un’altra.

«Non è tanto semplice» disse Bethell. «Oggi c’è un gran mercato di roba professionale fatta in modo da sembrare opera di dilettanti. Come se uno avesse scattato una foto erotica alla sua ragazza, capisce cosa voglio dire? E ciò vale soprattutto per roba come questa.»

«Come questa in che senso?»

«Sadomaso. Manette, fruste e catene. Feticismo.»

Bethell sollevò di nuovo la foto che Thorne aveva fissato ormai centinaia di volte. Era stata scattata dall’alto. La donna aveva le mani legate dietro la schiena e il cappuccio stretto intorno al collo.

«Tu fai mai roba del genere?» chiese Thorne.

Bethell stava masticando una polpetta di granchio. Inghiottì il boccone e rispose con diffidenza, come se la domanda mirasse a fregarlo. «Sì… ne ho fatta parecchia. La mia è meglio di questa, però.»

«Naturalmente. Senti, se questo è un lavoro professionale, tu saresti in grado di scoprire chi ne è l’autore?»

«Potrei chiedere in giro, suppongo, ma…»

«Vale la pena di cercare il posto dove è stata sviluppata la pellicola?»

«No, è una perdita di tempo. Se non è un perfetto idiota, il tizio ha fatto tutto da solo. Macchina digitale, foto scaricata direttamente sul computer. Facilissimo…»

«Scopri quello che puoi, allora. Voglio sapere chi è la modella e chi ha pagato per la foto.»

Bethell fece una faccia sofferente. «Oh, cerchi di capire, signor Thorne. Qualche informazione va bene, ma quel che mi chiede significa mettersi a fare il poliziotto al posto suo.»

La cameriera che stava portando la birra di Thorne fece un sorriso sprezzante all’udire lo squittio lamentoso di Bethell e si allontanò in fretta. Per fortuna lui non se ne accorse.