«Che cosa c’è di male, Kodak? Un giorno potresti voler cambiare lavoro. La polizia è sempre alla ricerca di giovani brillanti come te…»
«Lei a volte riesce a essere un vero stronzo, signor Thorne.»
Thorne si chinò verso di lui, puntandogli contro le bacchette. «Già, e tanto per dartene una prova, se non farai un lavoro come si deve con questa foto, farò irruzione nel tuo laboratorio, prenderò l’obiettivo più grosso che hai e te lo ficcherò su per il culo, così potrai fotografarti l’intestino. Ora passami i gamberi, per favore.»
Bethell rimase in silenzio per alcuni minuti, imbronciato. Poi prese la foto e se la infilò in una tasca dei pantaloni.
«Dovresti provare una di queste zampe d’anatra, Kodak» disse Thorne. «Sai che aiutano a nuotare più veloci?»
Bethell spalancò gli occhi. «Vuole prendermi in giro, signor Thorne?»
Welch era in attesa sulla soglia, quando Caldicott apparve dalla parte opposta del pianerottolo con il carrello della posta. Mentre si avvicinava lentamente, fermandosi davanti a ogni porta, Welch vide che il suo viso non era guarito bene. Un lato, dalla bocca alla fronte, era lucido come se fosse sudato e aveva un colore lattiginoso. Un reticolo di rughe bianche risaltava contro il rosso vivo di ciò che restava delle sue labbra.
Il carrello si fece un po’ più vicino. Caldicott sorrideva. La consegna della posta era un momento piacevole per lui, soprattutto dopo le settimane trascorse in ospedale. Un paio di stronzi dell’ala B lo avevano beccato nella lavanderia. Non avrebbero dovuto trovarsi lì, ma qualcuno aveva chiuso un occhio, lasciando una porta aperta.
Una delle donne di Caldicott era una ragazzina di quattordici anni. Caldicott aveva giurato a Welch che pensava che fosse più grande e che la carne tenera non gli piaceva. Di sicuro Welch poteva capirlo, aveva detto con voce lamentosa. Anche lui doveva essersi trovato in una situazione analoga. Insomma, certe adolescenti, di questi tempi, sembravano tutto tranne che ragazzine. Welch aveva detto che infatti lo capiva. Anche lui si era trovato in situazioni analoghe e ringraziava la sua buona stella che la ragazza per cui era finito in galera avesse già compiuto sedici anni, anche se da poco. Caldicott doveva aver detto la stessa cosa a quegli animali della lavanderia. Sicuramente li aveva supplicati, ma quelli erano uomini che badavano solo ai fatti concreti, senza curarsi di ciò che uno come Caldicott credeva o pensava.
Uno di loro l’aveva preso per i coglioni, mentre l’altro aveva vuotato l’asciugatrice, sistemando il bucato nel secchio di plastica rossa. Poi, mentre Caldicott gridava e nessuno lo sentiva, gli avevano infilato la testa nel cestello, premendogli la faccia contro il metallo bollente…
Caldicott consegnò a Welch una lettera, con un sorriso che gli tendeva la pelle sopra gli incisivi giallastri. Welch la prese, pensando che quel poveretto sembrava un fantasma, e si ritirò rapidamente dietro la porta.
La busta era stata aperta, ovviamente, ma a lui ormai della privacy non importava più nulla da un pezzo. Aveva solo pochi minuti per leggere la lettera in pace, da solo. L’ultima lettera che sarebbe stato costretto a leggere in una cella soffocante, ammorbata dalla puzza di merda del suo compagno.
C’era un’altra foto. Era la prima cosa che aveva cercato e aveva quasi lanciato un grido, quando ne aveva sentito lo spessore tra le pagine della lettera.
Welch la tirò fuori e se l’appoggiò sul petto, senza guardarla. Poi la sollevò lentamente, un po’ alla volta, emettendo un gemito soffocato quando la vide. Il cappuccio era scomparso, ma lei dava le spalle alla macchina fotografica e teneva la testa abbassata. I capelli corti erano a malapena visibili e il viso era nascosto. Era seduta sui talloni, con le mani legate dietro la schiena, le spalle leggermente in ombra e un bel culo rotondo…
La porta si aprì e Welch non fu più solo. Sollevò le ginocchia per nascondere l’erezione e si appoggiò la foto sul petto. Quando il suo compagno di cella si lasciò cadere sulla branda di fronte con un grugnito, Welch aveva gli occhi chiusi e ripassava mentalmente ogni dettaglio della nudità di Jane.
7 maggio 1976
«Signore e signori, forse la cosa vi sorprenderà, ma io vorrei concentrarmi per qualche minuto sulle prove fornite da un testimone chiamato dalla difesa.
Vi invito a considerare la dichiarazione resa dal sergente Derek Turnbull.
Si tratta di un poliziotto dal curriculum esemplare e credo che la sua testimonianza abbia un grande valore. Dovremmo prendere molto sul serio ciò che gli abbiamo sentito dire nel corso di questo processo.
Ricordate le sue parole…
Ricordate ciò che ha detto il sergente riguardo ai colloqui da lui avuti con la donna che accusa il mio cliente di stupro. Ha parlato di “confusione”, di “mancanza di concentrazione” da parte della donna. Io vi chiedo, allora, un incidente tanto drammatico non dovrebbe essere facile da ricordare? Non dovrebbe essersi impresso a fuoco nella memoria? Naturalmente sì. Eppure questa donna non sa dire con precisione l’ora in cui è avvenuto, non ha saputo descrivere in modo coerente come era vestito il mio cliente al momento della presunta violenza. Solo un sacco di chiacchiere irrilevanti su una lozione dopobarba…
Ricordate le parole del sergente Turnbull quando ha descritto i risultati dell’esame fisico. Non è stato trovato nulla sotto le unghie della donna, nulla che suggerisse una resistenza qualunque. Il sergente ha ripetuto alla corte la risposta della donna quando le è stata posta questa domanda: “Non ho potuto ribellarmi”.
Non ha potuto, o non ha voluto?
Ricordate anche cosa ha detto il sergente quando ha descritto le circostanze del primo colloquio, del primo esame fisico. Si è trattato di un esame “del tutto inutile”, per ripetere le sue parole, poiché ha avuto luogo il mattino successivo alla presunta violenza e dopo che la donna aveva fatto una doccia. Ricordate le parole della sua collega, quando ha descritto il vestito che vi è stato mostrato come Reperto A? “Troppo carino per essere indossato al lavoro”. Io metto insieme tutte queste cose, signore e signori, e il risultato è una versione completamente diversa di ciò che è accaduto in quel magazzino, lo scorso dicembre…
Quel vestito non potrebbe essere stato strappato durante un rapporto sessuale frenetico e consensuale, come ha dichiarato il mio cliente? I lividi non potrebbero essere dovuti semplicemente a una passione eccessiva? E quella doccia fatta per “lavare via” l’odore del mio cliente, non potrebbe aver avuto lo scopo di nascondere al marito la verità di quel rapporto extraconiugale?
Vi ho chiesto di ricordare le parole di un funzionario di polizia la cui testimonianza era intesa a danneggiare l’uomo che io qui rappresento. Invece, sicuramente senza volerlo, ha ottenuto il risultato opposto. Vi ho chiesto di considerare le sue parole e vedo che lo state facendo. Vedo dai vostri volti, signore e signori della giuria, che quelle parole hanno instillato in voi un dubbio legittimo. E se dubitate, com’è logico, della verità di ciò che questa donna sostiene, allora so che la vostra decisione, dopo che vi sarete ritirati a deliberare, sarà molto rapida.
La legge spiega chiaramente come regolarsi in caso di ragionevole dubbio. E poiché sono certo che si tratti proprio di questo, so che farete la cosa giusta e assolverete il mio cliente…»
CAPITOLO 5