È stata colpa mia…
Perché lei non ha lottato…?
Lui si mise a guardare cornici per foto, pensando al viso del presidente della giuria. Poco più in là, lei esaminava cartoline illustrate, rivedendo dita tozze che frugavano sotto il suo vestito, cercandole l’inguine. I loro sguardi si incrociarono, ma lei distolse gli occhi prima che lui potesse sorriderle.
Un attimo dopo, da dietro una vetrinetta emerse all’improvviso la moglie di Franklin e si trovò esattamente davanti a lei.
Lui fece un passo nella loro direzione, ma si fermò vedendo sua moglie allungare una mano verso quella donna che l’aveva fissata con disprezzo per tutto il processo. Vide la moglie di Franklin ignorare la mano, piegare indietro la testa e poi sputare in faccia a sua moglie.
Una donna lì vicino soffocò un grido, un’altra fece un passo indietro, urtando una caraffa di vetro, che finì per terra frantumandosi in mille pezzi.
Lui allora si fece avanti e sospinse la moglie in modo gentile, ma fermo verso l’uscita. Mentre lasciavano il centro commerciale, lei non distolse neppure un attimo gli occhi dalla donna che le aveva sputato in faccia. E non fece neppure il gesto di pulirsi il viso.
Non disse una parola mentre tornavano a casa, verso quella casa da cui non sarebbe più uscita.
CAPITOLO 6
Da Kentish Town, Thorne prese tutte le scorciatoie che conosceva fino a Highbury Corner, da dove si diresse a est lungo Balls Pond Road in direzione di Hackney.
Gettò una rapida occhiata allo stradario. La fioraia stava da qualche parte dietro Mare Street, a poca distanza dai London Fields, un parco pubblico isolato in una delle zone più depresse della città.
Un tempo pascolo di pecore e regno di borseggiatori, adesso era pieno di giovani registi e pubblicitari intraprendenti, seduti sulle panchine a sorseggiare bibite o intenti a portare a spasso i loro levrieri, facendo di tutto per sembrare convincenti nella loro eccentricità.
Thorne percorse strade affollate di gente dedita agli acquisti del sabato mattina. Strade rumorose di saluti e di grida di venditori del mercato. Strade in cui ogni cento metri Thorne riconosceva, dall’espressione di un viso o dalla mano affondata in una tasca, i segni di un genere di affari completamente diverso.
Lì, come in decine di altri quartieri, la criminalità comune era fuori controllo. La distruzione dei telefoni pubblici era una forma di interazione sociale e se uno se ne andava in giro con uno stereo portatile era un turista che non sapeva leggere una mappa stradale.
Adesso, i borseggiatori giravano in bande.
E così le autorità, nella loro infinita saggezza e con il desiderio di guadagnarsi l’approvazione della stampa, sceglievano zone come Hackney per inaugurare iniziative destinate a coinvolgere i giovani. Thorne aveva letto un rapporto su uno di quei programmi, in cui due giovani poliziotti avevano sostituito la divisa con felpe munite di cappuccio e si erano mescolati ai ragazzi in un centro ricreativo locale. Uno di loro aveva chiesto a un tredicenne membro di una banda cosa pensava di poter fare per evitare guai con la polizia. E il ragazzo aveva risposto, in tono nient’affatto ironico: «Userò un passamontagna».
Il negozio era piccolo, incassato tra la sede di una società di taxi e un fabbro. L’aspetto era piacevolmente antiquato, con una vetrina minimalista e l’insegna dipinta in lettere verdi a mo’ di rampicante, su uno sfondo panna.
L’interno era illuminato da candele con un sottofondo di musica classica a basso volume. Non c’era un solo fiore che Thorne conoscesse.
«Cerca qualcosa in particolare?» chiese, da dietro un piccolo bancone in legno, un uomo sulla trentina, con un libro in mano.
Thorne gli si avvicinò, sorridendo. «La gente non compra più crisantemi, rose, giunchiglie…?»
Una donna entrò da una porta sul retro portando un’enorme composizione floreale. Appena parlò, Thorne la riconobbe dalla voce. Sicura di sé, divertita. E fu subito chiaro che anche lei lo aveva riconosciuto.
«Bene, possiamo far arrivare su ordinazione quelle particolari specie, signor Thorne. Ma l’avverto, le costerà molto caro…»
Lui rise, esaminandola per alcuni secondi. E capì che lei stava facendo la stessa cosa con lui, anche se sembrava occupata con i fiori.
Era alta circa un metro e sessanta, o forse meno, e portava i capelli biondi fermati sulla nuca da una grossa molletta di legno. Sotto il grembiule marrone indossava jeans e una felpa. Aveva il viso lentigginoso e il sorriso rivelava uno spazio tra i due incisivi superiori.
Thorne ebbe subito voglia di vederla senza i jeans.
L’uomo dietro il bancone aveva preso in mano un block-notes. «Devo fare un ordine, Eve? Per i crisantemi e le altre cose?»
Lei posò la composizione floreale, si sfilò il grembiule da sopra la testa e sorrise. «No, Keith, lascia perdere.» Poi si voltò verso Thorne. «C’è una piccola sala da tè proprio dietro l’angolo. Servono un tè con gli scone da urlo. Cosa ne dice? Con una bella giornata come oggi, possiamo anche far finta di essere nel Devon, o in qualche posto del genere…»
Mentre si dirigevano verso la sala da tè, lei non smise un attimo di parlare. «Keith mi aiuta il sabato mattina. È bravissimo con i fiori ed è simpatico ai clienti. Il resto della settimana me la cavo da sola, ma il sabato devo preparare le composizioni per i matrimoni, sistemare le fatture, gli ordini e tutto il resto. Oggi, però, Keith può occuparsi del negozio da solo, mentre noi ci rimpinziamo. Non è un genio, povero caro, ma lavora come un matto per… be’, praticamente per niente, se devo essere sincera.»
«E che cosa fa Keith nel resto del tempo?» chiese Thorne. «Quando non è sfruttato da lei, voglio dire.»
Eve sorrise, stringendosi nelle spalle. «A dire la verità, non lo so di preciso. Credo che si occupi della madre. Forse è una donna ricca, perché lui non sembra mai a corto di denaro. Se lavora nel mio negozio non è certo per soldi, visto quello che lo pago. Dio, ho una tale voglia di una tazza di tè…»
Il locale in cui entrarono era terribilmente kitsch, con le tovaglie a quadretti, servizi di tazze art déco e radio di bachelite su scaffali e davanzali. Il tè arrivò quasi subito. Eve riempì la propria tazza di Earl Grey e quella di Thorne di monkey tea, poi spalmò una generosa dose di burro e marmellata su uno scone e sorrise.
«Ascolti, se vuole dire qualcosa, le conviene farlo mentre sono occupata a mangiare. So che tendo a parlare un po’ troppo…»
«L’uomo che ha lasciato quel messaggio sulla sua segreteria telefonica si è mai più fatto vivo?» Eve lo fissò, confusa. «Sono le domande che mi servono per giustificare questo incontro e mettere il pranzo nel rimborso spese, come ha suggerito lei» spiegò Thorne.
Eve si schiarì la voce. «No, signor ispettore. Purtroppo non ho mai più avuto notizie di quell’uomo.»
«Grazie. Se le viene in mente qualcos’altro su di lui, si farà viva, vero? Ed è inutile che le dica che preferiremmo che non lasciasse il paese…»
Lei rise, infilandosi in bocca l’ultimo pezzo di scone. Quando lo ebbe trangugiato, fissò Thorne negli occhi, riparandosi con una mano dal sole che entrava dalla vetrata. «Mi sembra di capire che non l’avete ancora preso. Ha ucciso qualcuno?»
Thorne deglutì. «Ecco, non credo di poter…»
«Sto solo facendo due più due, in realtà. So che è un uomo, perché ho sentito la sua voce, e lei mi ha detto di far parte dell’Unità per i Reati Gravi, perciò immagino che non lo stiate cercando perché non ha restituito i libri presi in prestito alla biblioteca del quartiere.»