Thorne si versò un’altra tazza di tè. «Sì, ha ucciso qualcuno. No, non l’abbiamo ancora preso.»
«E lo prenderete?»
Thorne versò del tè anche a lei.
«Perché quell’uomo ha scelto proprio me per ordinare una corona di fiori?» chiese Eve.
«Credo che abbia preso un nome a caso sulle Pagine Gialle» rispose Thorne. Ne avevano trovata una copia nel comodino. Era piena di impronte digitali, ma Thorne dubitava che ce ne fosse qualcuna dell’assassino.
«Sapevo che non avrei dovuto scegliere la pubblicità con il riquadro» disse lei, facendo una smorfia.
Benché Eve parlasse molto di più e molto più rapidamente di lui, nell’ora che seguì Thorne chiacchierò con lei più di quanto avesse fatto con chiunque da molto tempo. Era un pezzo che non si sentiva così a suo agio con una donna.
«Quando sarà il matrimonio?» chiese Eve, mentre una cameriera portava via i piatti. Thorne rimase sorpreso nel constatare quante cose si erano detti e con quale facilità erano passati a darsi del tu. «Tra una settimana precisa, il prossimo sabato. Cristo, preferirei salire sul patibolo…»
«Non vai d’accordo con tuo cugino?»
Thorne sorrise alla cameriera, che aveva appoggiato il conto sul tavolo. «Lo conosco appena. Se adesso entrasse qui probabilmente non lo riconoscerei neppure. È solo un dovere di famiglia, capisci…»
«Già. Puoi sceglierti gli amici, ma non i parenti…»
«I tuoi sono come i miei, allora?»
Lei spazzò via alcune briciole dalla tovaglia, facendole cadere per terra. «Tuo cugino ha la tua stessa età?»
«No, zia Eileen è molto più giovane di mio padre e Trevor dovrebbe avere una trentina d’anni, credo…»
«E tu?»
Thorne aprì il portafoglio e appoggiò quindici sterline sul tavolo. «Vuoi sapere quanti anni ho? Quarantadue. Anzi, quarantatré fra… Cristo, dieci giorni.»
Lei rimise a posto una ciocca di capelli che si era liberata dal fermaglio. «Non ti dirò che ne dimostri meno perché suona sempre falso, ma guardandoti direi che devono essere stati quarantatré anni interessanti.»
Thorne annuì. «Ti ringrazio, ma tanto perché tu lo sappia… non mi importa anche se suona falso.»
Lei sorrise, infilandosi un paio di occhiali da sole con la montatura oblunga. «Quaranta, allora. Forse trentanove.»
Thorne si alzò, prendendo la giacca di pelle dallo schienale della sedia. «Così va meglio.»
Una volta tornati nel negozio, si scambiarono i biglietti da visita, si strinsero la mano e si trattennero sulla soglia, un po’ imbarazzati. Thorne si guardò intorno. «Forse dovrei prendere una pianta, che ne dici?»
Eve si chinò e sollevò un vaso di metallo a forma di secchio in miniatura, da cui sporgeva una pianta che sembrava un cactus. «Ti piace questa?»
Thorne non ne era tanto sicuro. «Quanto ti devo?»
«Nulla. Considerala un regalo di compleanno anticipato.»
Lui la esaminò con attenzione. «Grazie.»
«È un’aloe vera.»
Thorne annuì. Notò che Keith li osservava da dietro il bancone. «Allora sarà perfetta per lo shampoo…»
«Le foglie contengono una sostanza ottima per rimarginare tagli e piccole ferite.»
Thorne fissò le spine che sporgevano dalle foglie lanceolate. «Sono certo che mi sarà utile, allora.»
Uscirono sul marciapiede e di nuovo avvertirono una punta di imbarazzo. Thorne notò uno scooter argenteo parcheggiato accanto al negozio. Era una Vespa ultimo modello. «È tua?»
Lei scosse la testa. «No, è di Keith.» Poi indicò un edificio dall’altra parte della strada. «Io abito lì.»
Thorne allora notò anche il furgone bianco dietro il quale aveva parcheggiato la sua Mondeo. Il nome del negozio era dipinto sulla fiancata con le stesse lettere verdi a mo’ di rampicante dell’insegna.
«Avrei potuto fare solo la fioraia, credo» disse lei. «Mi piace tutto ciò che sboccia.»
Thorne pensò ad altre cose che potevano sbocciare e che forse non le sarebbero piaciute, ma non disse nulla per non rovinare l’atmosfera. «Hai scelto l’attività giusta, allora» disse.
E pensò: “Lividi, tumori, macchie di sangue…”.
Per la quarta volta in un’ora, Welch si trovò a rispondere alle stesse stupide domande.
«Data di nascita?»
Forse le guardie si passavano l’un l’altra la lista. Neppure una di loro era riuscita a trovare qualcosa di più originale da chiedergli.
«Cognome della madre da nubile?»
Sempre le solite, vecchie domande, pensate per smascherare gli impostori. Era così da chissà quanti anni e ora meno che mai volevano correre rischi, dopo l’incidente di un paio di mesi prima. Due pakistani in una prigione nel nord del paese si erano scambiati il posto, il giorno del rilascio, e quei deficienti avevano fatto uscire l’uomo sbagliato. Parecchie guardie carcerarie si erano giocate la pensione, quel giorno, e il tamtam della prigione aveva diffuso la notizia ovunque, facendo scoppiare in una bella risata tutti i detenuti d’Inghilterra.
«Hai qualche tatuaggio?»
«Posso chiedere aiuto al pubblico?»
«Non fare il furbo, Welch, altrimenti ricominciamo tutto da capo.»
Welch sorrise e rispose alla domanda. Non aveva intenzione di fare sciocchezze, a quel punto del gioco. Ogni porta che oltrepassava, ogni serie di domande a cui rispondeva in modo corretto, ogni casella barrata sulla scheda lo avvicinavano sempre più all’uscita.
Rispose alle loro domande cretine e firmò tutto ciò che gli chiedevano di firmare. Prese la ricevuta del certificato di rilascio e del biglietto di viaggio. Gli restituirono i suoi effetti personali: il portafoglio consunto, l’orologio, l’anello di metallo giallo. Quei bastardi scrivevano sempre “metallo giallo”, mai “oro”, nel caso in cui l’avessero perso…
Poi un’altra porta, un’altra guardia e infine una parola soltanto: «Arrivederci».
Welch uscì e s’incamminò verso l’uscita. Procedeva lentamente, godendosi ogni passo. Di lì a poco avrebbe udito il rumore del pesante portone di metallo che si chiudeva alle sue spalle e avrebbe sentito il calore del giorno sul viso.
Avrebbe visto il sole, dello stesso colore del metallo giallo.
Un sabato sera davanti alla tivù, con birra e cena indiana da asporto era un piacere che Thorne e Hendricks si concedevano regolarmente. Per nove mesi all’anno c’erano le partite di calcio da vedere. Quella sera, invece, forse avrebbero guardato un film o qualcos’altro, visto che mancavano ancora diverse settimane all’inizio del campionato. O forse avrebbero ascoltato un po’ di musica e fatto due chiacchiere.
Erano quasi le nove e c’era ancora luce. Si allontanarono dal ristorante indiano lungo Kentish Town Road, diretti a casa di Thorne. Erano entrambi in jeans e maglietta e naturalmente i jeans di Thorne erano quelli che davano meno nell’occhio. Hendricks portava il sacchetto con le birre, mentre Thorne si era assunto la responsabilità del pollo al curry. Il Bengal Lancer effettuava consegne a domicilio, ma vista la bella serata i due amici avevano voluto fare una passeggiata. E poi c’era la prospettiva di una Kingfisher gelata mentre aspettavano le pietanze. L’odore speziato che veniva dalla cucina aveva stimolato loro l’appetito.
«Perché lo stupro?» chiese Thorne all’improvviso.
Hendricks annuì. «Bravo, bella mossa. Liberiamoci subito dei problemi di lavoro, così poi potremo rilassarci in pace.»
Thorne ignorò il sarcasmo. «Tutto il resto così ben progettato, così meticoloso. È uno che non corre rischi. Ha portato via lenzuola, federe e copriletto, pur avendo ucciso Remfry sul pavimento. Si è voluto assicurare di non lasciare nessuna traccia…»