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Decise che, prima che loro salissero, sarebbe andata in camera sua. Avrebbe letto un po’, cercando di non pensare troppo a Tom Thorne. Si affacciò in cima alle scale e annunciò: «Vado a dormire! Ci vediamo domattina!».

L’ultima cosa che voleva era stare lì a guardarli mentre si accarezzavano.

Il sole entrava a fiotti da due grandi finestre in fondo alla stanza, ma la luce era fredda e metallica, come in una sala per le autopsie.

Una luce bianca accecante, ma Thorne sapeva perfettamente che era notte.

Indossava un pigiama e, sopra il pigiama, la giacca di pelle marrone. Si muoveva rapidamente in giro per la stanza, al ritmo di una melodia che conosceva, ma che non riusciva a identificare.

I tre letti di metallo erano equidistanti tra loro e ben allineati. Erano simili a brande da ospedale, ma più grandi e confortevoli. Su ciascuno, oltre a uno spesso cuscino e a un lenzuolo pulito, c’era un cadavere.

Thorne si avvicinava al primo letto, stringeva le mani intorno al metallo freddo e fissava Douglas Remfry. Il sedere per aria, la faccia premuta contro il lenzuolo. Cominciava a scuotere il letto, gridando, pieno di disprezzo per quell’uomo e per ciò che aveva fatto.

«Avanti, alzati, pigro bastardo. Ci sono un sacco di donne che non vedono l’ora di essere violentate. Alzati e va’ a cercarle…»

Con le scosse del letto, la pelle iniziava a staccarsi dal cadavere, scivolandogli di dosso come un vestito sporco e mettendo a nudo le ossa.

Thorne rideva, indicando ciò che rimaneva del violentatore. «Cristo, pigrone, vuoi alzarti o no?»

Si avvicinava al secondo letto e faceva cadere la pelle anche dal cadavere di Ian Welch, prendendolo in giro.

Non provava nulla per quegli uomini morti. Per quei pezzi di carne…

Davanti al cadavere di Howard Southern, Thorne si accorgeva che il letto vibrava da solo, mentre qualcosa passava rumorosamente sotto il pavimento. Un’ombra velava la luce che entrava dalle finestre e Thorne alzava lo sguardo. Osservava il movimento, avanti e indietro, finché l’odore gli colpiva le narici.

Rideva di nuovo, vedendo ciò che quei cadaveri erano diventati. Ciò che probabilmente erano sempre stati. Tre merde, ciascuna nel centro esatto del letto. Probabilmente a farle era stato il cadavere appeso al soffitto.

Thorne si svegliò e il sogno si dileguò, lasciandogli solo una serie di emozioni: disprezzo, rabbia e vergogna.

Erano le due e mezzo del mattino.

Quando anche le sensazioni furono svanite, rimasero solo i pensieri. Thorne pensava a una donna e alla violenza che aveva subito. Ormai era morta da quasi trent’anni, così come il suo assassino, ma non faceva differenza.

In Jane Foley, Thorne aveva finalmente trovato una vittima di cui poteva importargli qualcosa.

CAPITOLO 19

Era lunedì mattina. Erano passate sette settimane dal giorno in cui era stato trovato il cadavere di Douglas Remfry e più di venticinque anni dal giorno in cui Jane Foley era stata uccisa dal marito, dopo aver subito uno stupro e un processo umiliante. Thorne cercava ancora un collegamento tra i due omicidi e sperava che la donna seduta davanti a lui potesse aiutarlo.

Thorne sapeva che l’Essex, a dispetto delle barzellette sul quoziente d’intelligenza e le abitudini sessuali delle sue donne, era pieno di sorprese. Tuttavia, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di vedere a Colchester, ex capitale della Britannia romana, era un municipio che sembrava una villetta di campagna.

L’ufficio del Servizio Affidi e Adozioni era un po’ malmesso, certo, ma comunque stupefacente. E lo stupore era evidente sul volto di Thorne, mentre la direttrice faceva accomodare lui e Holland in una stanza con pannelli di quercia alle pareti, travi a vista e soffitto decorato.

«In origine questa era la rimessa. So che sembra carina, ma, credetemi, lavorarci dentro è tutta un’altra storia.» Joanne Lesser era una trentenne nera dalla pelle non troppo scura, alta e forse un po’ troppo magra per i gusti di Thorne. Le sopracciglia folte incorniciavano un viso che pareva severo, finché non si apriva in un sorriso. In quei momenti era facile immaginarsela mentre rideva per una barzelletta spinta, dopo qualche bicchiere di troppo bevuto a un party natalizio.

«L’edificio praticamente cade a pezzi» disse Joanne. «I pavimenti non devono essere gravati di pesi eccessivi, gli schedari possono essere appoggiati solo contro certe pareti e nulla è in piano. Se non state attenti, potreste scivolare con la vostra sedia all’altro capo dell’ufficio.»

Thorne e Holland fecero un sorriso di cortesia, evitando i commenti, e la donna si strinse nelle spalle. L’unico rumore nella stanza era quello di un vecchio ventilatore di metallo che sembrava anch’esso un pezzo di antiquariato. A un’estremità della scrivania, sopra un computer polveroso era allineato un intero esercito di pupazzetti, rigidi e morbidi.

«Lei ha già parlato al telefono con l’ispettore capo Brigstocke» disse Thorne, alzando la voce per sovrastare il rumore del ventilatore. «Mark e Sarah Foley?»

Joanne Lesser prese un foglio dalla scrivania e lo fissò in silenzio.

«1976…» aggiunse Holland, incoraggiante.

«Bene, come potete certo immaginare, si tratta di un caso che non è affatto semplice» disse la donna, con un sorriso. «Tutto ciò che posso dirvi con un minimo di certezza è che chi ha ricevuto in affido quei due ragazzi non è più iscritto nei nostri registri come affidatario ancora attivo.»

Holland si strinse nelle spalle. «Sarebbe stato sperare troppo…»

«Già» ribadì Thorne, anche se in realtà ci aveva sperato.

«Stiamo parlando di più di venticinque anni fa» disse Joanne Lesser. «È possibile che le persone che si sono prese cura di loro siano ancora attive, ma in un’altra regione.»

«E come possiamo controllare?» chiese Thorne.

«Non ne ho idea. In ogni modo è un’eventualità remota… La mia era solo una riflessione ad alta voce…»

Thorne sentiva che stava per venirgli l’emicrania. Si avvicinò con la sedia alla scrivania e indicò il ventilatore. «Mi scusi, potrebbe…»

La direttrice allungò una mano verso l’interruttore e lo spense.

«Grazie» disse Thorne. «Cercheremo di fare in fretta. Perché prima ha usato l’espressione “con un minimo di certezza?”»

«Perché gli unici file a cui ho accesso da qui sono quelli che riguardano le persone ancora iscritte come affidatane attive.»

«I vecchi file sono su qualche altro computer?»

Lei sbuffò. «Qui abbiamo iniziato a scrivere a macchina meno di dieci anni fa e ci sono ancora un sacco di documenti manoscritti. L’edificio in cui ci troviamo non è l’unico relitto del passato…»

Thorne sbatté le palpebre. La sua solita fortuna: dover ricorrere all’aiuto di un’istituzione che lavorava con sistemi ancora più antiquati di quelli della polizia.

«Ma ci saranno pure documenti, scritti in una qualunque forma, che permettono di risalire a quegli anni, no?»

«Suppongo di sì. Dio sa in che stato li troverete, sempre che riusciate a trovarli. Si tratterà sicuramente di poche pagine scarabocchiate a mano trent’anni fa. Ah, però alcuni sono stati microfilmati, se non sbaglio…»

«Quindi, esistono?» chiese Thorne, cercando di non sembrare troppo impaziente.

«Dovrebbero esistere…»

«E si trovano da qualche parte?»

«Sì, a Chelmsford, nel palazzo del consiglio di contea. La legge dice che dobbiamo conservarli.»

«Legge sulla protezione dei dati personali» mormorò Holland.

«Esatto. Chiunque abbia usufruito dei nostri servizi ha diritto di vedere i documenti che lo riguardano. Ci sono persone che vengono qui, a quaranta o cinquant’anni, in cerca di particolari su coloro che li hanno avuti in affido quando erano bambini.»