Era quello che aveva risposto a quei bastardi di poliziotti, quando gli avevano chiesto cosa faceva all’epoca della morte del fratello. Ed era quello che più o meno aveva continuato a fare. Tenersi un lavoro gli riusciva difficile. Aveva sviluppato la tendenza a prendere le cose nel modo sbagliato, a reagire male a un commento o a uno sguardo strano. Non era sicuro che fosse per colpa di ciò che era accaduto. Magari era destinato fin da ragazzo a diventare un perdente con tendenze violente, ma era comunque piacevole avere una scusa da usare come giustificazione.
Qualcuno a cui dare la colpa.
Avrebbe dovuto cambiare aria. Andarsene. C’era sempre qualcuno che voleva dire la sua, o un paio di giovani mamme che si sussurravano qualcosa, tenendo d’occhio i bambini. C’era sempre un fottuto impiccione che si preoccupava di raccontare la storia della sua famiglia a tutte le donne con cui lui si metteva. La gente aveva la memoria lunga. Ma lui ce l’aveva ancora più lunga…
Ricordava la discussione che aveva avuto con Den, un paio di giorni prima del fatto. Era passato a trovarlo e gli aveva chiesto come mai, se era tutto a posto, nessuno aveva più visto in giro Jane da un pezzo. E Den, tremante di rabbia, gli aveva detto di farsi gli affari suoi. Lo aveva accusato di volersi scopare Jane, anzi, aveva suggerito che forse lo aveva già fatto, alle sue spalle. Peter ricordava come si era sentito in colpa, dopo. Perché Jane gli piaceva davvero. Gli era sempre piaciuta.
Ricordava anche le facce dei bambini l’ultima volta che li aveva visti, prima che quella puttana dei servizi sociali se li portasse via. Sarah era tranquilla, probabilmente non aveva neppure capito bene ciò che stava succedendo. Ma il viso di Mark, premuto contro il lunotto posteriore dell’auto, era rigato di lacrime e muco.
Peter si alzò, prese il foglietto della consumazione e si avviò alla cassa per pagare il conto.
Pensò ai suoi nipoti, sperando che fossero insieme, in qualche posto lontano, dove nessuno potesse mai trovarli e rovinare loro la vita.
Il pomeriggio avanzava. Peter sarebbe tornato a casa, a stendersi un po’ sul letto. E la sera avrebbe messo su della musica e avrebbe cominciato a bere. Una lattina dietro l’altra, fino ad annegare il rumore che aveva nella testa e a udire soltanto il frastuono heavy metal che riempiva la stanza.
Di ritorno a Becke House, Thorne riferì a Brigstocke e a Yvonne Kitson i risultati del viaggio a Colchester. Parlarono anche degli sviluppi dell’altro filone di indagine. L’omicidio di Southern aveva molte analogie con i due precedenti: la causa della morte; la scena del crimine; la corona di fiori, ordinata di persona a un fioraio aperto ventiquattr’ore e recapitata fin sulla porta della stanza, ma poi lasciata cadere a terra dopo uno sguardo alle condizioni in cui si trovava il destinatario dell’omaggio.
Ma c’erano anche parecchie differenze. E nuove piste da esplorare.
Southern era uscito di prigione più di dieci anni prima. Non era stato scelto nello stesso modo delle altre vittime e anche l’approccio era stato diverso. A differenza di quanto era accaduto con Remfry e Welch, in quel caso sarebbe stato necessario passare in rassegna la vita della vittima, per scoprire come e quando l’assassino aveva deciso di entrare a farne parte. Erano già stati effettuati centinaia di interrogatori e ce n’erano in programma parecchi altri. Praticamente la polizia stava interrogando chiunque avesse mai avuto contatti con Southern: colleghi di lavoro, amici del bar, gente che frequentava la sua palestra, la ragazza con la quale aveva rotto da poco.
Quasi tutte quelle persone ignoravano che Howard Southern fosse stato in galera. E anche nei casi in cui lui l’aveva rivelato, perché in certi ambienti un soggiorno in carcere serviva a guadagnarsi rispetto, molto probabilmente aveva omesso di specificare il motivo della condanna.
Purtroppo, però, qualcuno era riuscito a scoprirlo e per questo Southern era stato ammazzato.
Nel suo ufficio, Thorne si mise a smistare la posta. Come sempre, era quasi tutta spazzatura. Circolari inutili, comunicati stampa, statistiche, annunci di nuove iniziative. Sfogliò rapidamente la newsletter della Federazione di Polizia, soffermandosi su un articolo che parlava di una squadra di poliziotti che aveva fischiettato alcune canzoni nell’ambito di uno show televisivo. Ora la registrazione di quelle melodie veniva trasmessa per le strade e dentro i centri commerciali delle zone più a rischio, come deterrente per la microcriminalità.
Quando Thorne ebbe finito di ridere, controllò la segreteria telefonica. Joanne Lesser aveva chiamato per dire che l’indomani avrebbe iniziato il suo lavoro di ricerca. Sembrava che una parte dei documenti fossero stati trasferiti in un nuovo magazzino fuori Chelmsford. C’era un messaggio di Chris Barratt, del commissariato di Kentish Town. E nessun messaggio di Eve…
Thorne prese il telefono, meravigliandosi della fitta di delusione che ciò gli aveva provocato. E, mentre componeva un numero, si meravigliò anche della sua incredibile capacità di mandare sempre tutto a puttane.
«Era ora» disse, appena udì la voce all’altro capo del filo.
«Calmati» rispose Barratt. «Non lo abbiamo ancora preso. Ma sappiamo chi è. Lo becchiamo domani mattina presto.»
«Come lo avete trovato?»
«Hai tempo per una storia divertente?»
«Spara…»
«Aveva già venduto lo stereo» raccontò Barratt. «Forse subito dopo il furto. Ma poi ha avuto un problema…»
«Quale?»
«I tuoi gusti musicali.»
«Eh?»
«Quel povero coglione ha finito per farsi notare, perché ha passato le ultime quattro settimane cercando di piazzare la tua collezione di CD.»
«Che cosa?» esclamò Thorne, seccato per quell’insulto.
Ormai Barratt non cercava più di nascondere l’ilarità. «Era disposto anche a pagare perché qualcuno se la prendesse. L’ha portata in tutti i mercati e i negozi di roba di seconda mano di Londra…»
«Ridi pure, Chris. A me basta riaverla indietro.»
«Senti, quando l’avrai riavuta, metti qualche CD bene in vista davanti alla finestra: sarà un ottimo deterrente…»
«Non ti ascolto nemmeno. Chiamami quando avrete preso quello stronzo, va bene?»
«Certo.»
«E voglio cinque minuti…»
«Non c’è problema, io sono qui tutto il giorno.»
«Non con te, spiritoso. Con lui…»
CAPITOLO 20
Aveva assistito allo show televisivo di un comico che raccontava che le donne erano capaci di pensare e fare una quantità di cose allo stesso tempo, mentre gli uomini riuscivano a farne al massimo due: masturbarsi con una mano e manovrare il mouse con l’altra.
Quella battuta lo aveva fatto ridere. E rise ripensandoci ora, mentre lavorava e nello stesso tempo pianificava il prossimo omicidio.
La capacità di fare contemporaneamente più cose era una caratteristica peculiare e, anche se lui trovava di gran lunga più eccitante la sua attività illegale, provava piacere anche in quella legale. Naturalmente, non avrebbe potuto svolgere l’una senza l’altra.
Il prossimo omicidio…
Non sapeva ancora con sicurezza se sarebbe stato anche l’ultimo, ma probabilmente sì. Sarebbe stato un bel modo di chiudere.
Un omicidio diverso dagli altri, più simbolico, ma di certo non meno piacevole.
Bisognava ancora decidere la data, ma quello era l’ultimo particolare. La vittima era già stata scelta da settimane. Anzi, praticamente si era scelta da sola.
Quando si dice “trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato”…
Thorne pensò all’“Incontro per una giustizia riparatrice” al quale aveva assistito diverse settimane prima. Si ricordò di Darren Ellis e dello stridore delle sue scarpe da jogging sul pavimento della palestra.