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«È logico. Ormai l’assassino immagina che i carcerati siano stati messi sull’avviso. Perciò ha dovuto organizzarsi diversamente.»

«E se dicessimo “sa”, invece di “immagina”?» disse Thorne. «Se lui sapesse tutto ciò che succede, perché si tratta di qualcuno vicino all’indagine? Abbiamo sempre ipotizzato che avesse accesso alle informazioni. Poi sono successe altre cose e l’idea è stata accantonata. Ma se fosse vero che l’assassino è uno di noi?»

Quando Thorne arrivò a Becke House, gli fu detto che era atteso nell’ufficio di Brigstocke. Holland stava riferendo a Yvonne Kitson e all’ispettore capo la scoperta di Joanne Lesser e la successiva conversazione telefonica da lui avuta con la signora Irene Noble. Thorne gli chiese di ricominciare e di ripetere tutto da capo per lui.

«È interessante il fatto che la data dell’adozione e quella del trasferimento siano così vicine tra loro» osservò Brigstocke.

«È ancora più interessante di quanto credessi. La prima cosa che la signora Noble mi ha chiesto, quando le ho detto che volevo parlarle di Mark e Sarah Foley, è stata se li avevamo trovati.»

«Come sapeva che li stavamo cercando?»

«No, signore, non intendeva quello» spiegò Holland. Sfogliò il suo taccuino e lesse: «“Li avete trovati, finalmente?”». Queste sono state le sue precise parole. Poi mi ha spiegato che i ragazzi sono scomparsi nel 1984…»

«Appena dopo l’adozione» disse Thorne.

«Già.» Brigstocke si alzò in piedi e fece il giro della scrivania. «E appena dopo che i Noble se n’erano andati da Colchester…»

Holland mise via il taccuino e si appoggiò allo schienale della sedia. «La signora Noble mi ha detto che c’è stata un’indagine ufficiale, all’epoca. I ragazzi sono stati dichiarati scomparsi e la polizia li ha cercati per settimane.»

«Hai controllato?» chiese Brigstocke.

«Sì, ma non c’è nulla. Ho controllato anche l’anno 1983, nel caso in cui la donna avesse confuso le date, ma non ho trovato niente. Nessun resoconto di una eventuale ricerca, nessuna denuncia riguardante ragazzi scomparsi. Niente a livello nazionale e neppure a livello locale.»

«Che impressione ti ha fatto la Noble, quando le hai parlato?» chiese Thorne.

«Era agitata.»

«Perché mentiva, secondo te?»

«No, non credo. Mi è sembrata sincera.»

«Che ne è del marito?»

«Roger Noble è morto di infarto nel 1990.»

Thorne rifletté su quelle informazioni per qualche secondo, poi si voltò verso Brigstocke. «Dobbiamo andare a parlare con questa donna» disse.

Brigstocke annuì. «Dove abita, Dave?»

«A Romford, ma viene a Londra domani. Pare che le piaccia fare shopping nel West End…»

Thorne fece una smorfia. «Ma davvero…»

«Ho preso appuntamento con lei alle dieci e mezza.»

Brigstocke si tolse gli occhiali, tirò fuori da una tasca dei pantaloni un fazzoletto di carta appallottolato e asciugò il sudore dalla montatura. «Ben fatto, Dave. Occupati di questo con il sergente Karim. Lui dovrà riassegnare le mansioni…»

«Sissignore.» Holland aprì la porta e uscì.

«Yvonne, vorresti occupartene anche tu, per favore? Potremmo aver maggior fortuna nel trovare Mark e Sarah Foley, adesso che sappiamo che hanno cambiato nome.»

Yvonne Kitson, che non aveva detto nulla, annuì e fece un passo verso la porta.

«Questa è davvero una buona notizia» disse Brigstocke. «Finalmente qualcosa di positivo da riferire al sovrintendente Jesmond.»

Thorne non riuscì a trattenersi. «Digli che l’ho visto in tivù, l’altra sera. È stato grande…»

Brigstocke non si prese neppure il disturbo di replicare. «Una pinta per festeggiare, più tardi?»

«Secondo me non c’è da festeggiare niente, ma ci sarò.»

«E tu, Yvonne?»

Yvonne Kitson scosse la testa. «Ho troppe cose da fare.» Si voltò e uscì. «Devo cambiare tutte le chiavi di ricerca da Foley a Noble…» disse, mentre si dirigeva verso la sala di pronto intervento.

Brigstocke guardò Thorne. «Ma cosa le è preso?»

«Non chiederlo a me.»

«Forse dovresti provare a parlarle…»

Il cellulare di Thorne squillò. Appena lesse il nome sul display, Thorne salutò Brigstocke, dicendogli che si sarebbero visti più tardi, e uscì nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.

«È ancora valido l’appuntamento per sabato?» gli chiese Eve.

«Spero di sì.»

«Bene. Ceniamo da qualche parte, poi andiamo a casa tua.»

«Perfetto. Ah… Sai, c’è una cosa che non ho ancora fatto…»

«Chi se ne frega. Hai un divano, no?»

Aveva del lavoro da fare. Dal punto di vista professionale e da quello del suo progetto personale. Non che considerasse gli omicidi una cosa personale, nel senso di qualcosa che riguardava il suo essere.

No, ciò che faceva a quegli animali nelle stanze d’hotel non era affatto personale. Lo aveva sempre negato e continuava a negarlo. Certo, gli piaceva farlo ed era felice quando metteva loro la corda al collo e tirava. Ma se fosse stato dipeso solo da lui, non sarebbe accaduto nulla.

Lui era soltanto un’arma.

Stranamente, sentiva di svolgere con maggiore partecipazione il suo lavoro quotidiano. Pagare un mutuo significava assumersi responsabilità precise, mentre l’altra cosa che faceva non gli arrecava alcun beneficio personale, anche se poi lui si sentiva coinvolto. Il lavoro recava sempre impresse le sue impronte, da qualche parte.

Rise e continuò a lavorare. Ultimamente c’era parecchio da fare e si stava davvero guadagnando lo stipendio. Ora aveva meno tempo per organizzare le altre cose, ma in realtà il più era fatto e non c’era bisogno di preoccuparsi.

A parte qualche dettaglio, l’ultimo omicidio era già organizzato.

CAPITOLO 23

Thorne non era convinto. «Non ho mai interrogato nessuno nello stesso posto dove compro i pantaloni.»

«C’è sempre una prima volta per tutto» disse Holland.

Portarono i caffè al tavolino dove Irene Noble li stava aspettando, circondata dai sacchetti degli acquisti appena effettuati. La caffetteria di Marks Spencer era un’innovazione recente, incuneata in un angolo del reparto di moda femminile e affollata di clienti che avevano iniziato presto la giornata, come Irene Noble.

Mentre si sedeva accanto a Holland, Thorne lanciò un’occhiata a tutte quelle donne che stavano facendo una breve pausa, prima di rituffarsi nello shopping frenetico. C’erano anche due o tre uomini dall’aria stanca, contenti di potersi sedere un attimo e di non dover esprimere pareri su qualcosa per alcuni minuti.

Irene Noble prese dalla borsetta una scatoletta di dolcificante e ne fece cadere una minuscola pastiglia nel suo caffellatte. Sollevò le sopracciglia, fissando Holland. «Probabilmente pensano che io sia sua madre» disse.

Era ancora una bella donna per i suoi sessanta — e passa — anni, pensò Thorne, anche se il tentativo di tenere lontana la vecchiaia era un po’ troppo evidente. I capelli troppo biondi, il rossetto rosso vivo troppo marcato sulle labbra. Doveva essere la fase di strenua lotta che precede quella della resa, quando lei avrebbe confessato la sua età a chiunque, avrebbe indossato sempre un camicione e non gliene sarebbe fregato più nulla di nulla…

«Ci parli di Mark e Sarah, signora Noble.»

Lei sorrise brevemente e bevve un sorso di caffellatte. «Roger diceva sempre che li avevamo persi nel trasloco. Come un servizio da tè, ha presente?» Vide l’espressione di Thorne e aggiunse: «Non lo diceva con cattiveria, ma con dolcezza. Era fatto cosi. Trovava sempre una battuta per farmi ridere quando mi veniva da piangere. Ho pianto molto, quando è successo…».