«Li avevate adottati da poco, giusto?»
«Sì. Era l’inizio del 1984. Erano con noi già da quattro anni. Avevamo avuto dei problemi, certo, ma poi tutto si era sistemato.»
Il suo tono era un po’ affettato. Thorne ricordava che anche sua madre lo usava, quando voleva esibire il meglio di sé a beneficio di medici, insegnanti, poliziotti…
«C’erano stati dei problemi anche con le famiglie che li avevano tenuti prima di voi, se non sbaglio…» disse Holland.
«Sì, e tutti li avevano abbandonati subito. Solo Roger e io tenemmo duro. Sapevamo che era un problema che dovevamo superare. Erano bambini disturbati e Dio sa se non avevano tutto il diritto di esserlo.»
«Di che tipo di problemi si trattava?» chiese Thorne.
«Comportamentali. Difficoltà di adattamento. Roger e io pensavamo di essere riusciti a fargliele superare, ma ovviamente ci sbagliavamo.» La donna prese un cucchiaino e fissò la tazza mentre girava il caffellatte. «Comportamentali» ripeté, come se fosse una diagnosi medica. Thorne gettò un’occhiata a Holland, il quale si strinse nelle spalle.
«Quindi avete deciso di adottarli?» La signora Noble annuì. «E loro come hanno reagito?»
Lei lo fissò come se avesse fatto una domanda molto stupida. «Avevano perso i genitori ed erano stati rifiutati da tutte le famiglie che li avevano avuti in affido. Sono stati felici quando hanno saputo che saremmo stati una vera famiglia. Roger e io avevamo sempre voluto dei figli. Con Mark e Sarah ci siamo forse risparmiati i pannolini e quant’altro, ma vi garantisco che le notti insonni non sono mancate…»
«Ne sono certo» la interruppe Thorne.
«…sia quando erano con noi, sia dopo che sono scomparsi…»
«Com’è successo?»
La donna spinse da parte la tazza, appoggiando sul tavolino le mani dalla pelle macchiata. «Il giorno del trasloco nella nuova casa era un sabato mattina. C’era il caos che potete bene immaginare. Scatole e scatoloni dappertutto, i facchini che scivolavano sulla neve che copriva la strada… Abbiamo detto ai ragazzi di sistemare laloro roba da soli eloro sono saliti al piano di sopra…»
«A litigare per chi dovesse avere la stanza più grande, immagino.»
«No, avevamo già deciso in anticipo quali sarebbero state le loro stanze.»
«E cosa è successo?»
«Avevano entrambi bisogno di uno spazio privato, capisce?»
«Cosa è successo, signora Noble?»
«Nessuno li ha sentiti andare via, nessuno li ha visti. Sono spariti come fantasmi…»
«Quando vi siete resi conto che se n’erano andati?»
«Eravamo occupatissimi a sistemare la casa, ad aprire scatoloni per cercare questo o quello.» La signora Noble iniziò a tormentarsi un’unghia. «È stato solo verso l’ora di cena… Non ricordo esattamente quando, so solo che era già buio.»
«E…»
«All’inizio non ci siamo preoccupati troppo. I ragazzi uscivano spesso senza dire nulla. Erano molto indipendenti e molto uniti. Mark proteggeva sempre la sorella.»
Thorne gettò un’occhiata a Holland. «E quando avete chiamato la polizia?»
«La mattina dopo, quando abbiamo scoperto che non erano tornati a dormire.»
Thorne si chinò in avanti. Prese uno dei biscotti italiani che venivano offerti con il caffè e lo spezzò in due. «Chi ha chiamato la polizia?» chiese, con tono apparentemente casuale.
La risposta arrivò senza esitazione. «Roger. Invece di telefonare, è andato al commissariato di persona, pensando che così tutto si sarebbe risolto più in fretta. Mi ha riferito che la polizia si era attivata subito. Due agenti sono venuti a casa nostra, mentre io ero fuori a cercare i ragazzi per strada.»
«È stato Roger a dirle che erano venuti?»
Lei annuì. «Hanno dato un’occhiata alle stanze dei ragazzi, hanno fatto un po’ di domande, si sono portati via alcune foto…»
Thorne lanciò un’occhiata a Holland e lui subito si appuntò sul taccuino di trovare foto dei ragazzi da elaborare al computer, invecchiando i volti, come aveva suggerito Brigstocke. Thorne si mise in bocca la seconda metà del biscotto e masticò per alcuni secondi, prima di parlare di nuovo.
«La polizia ha pensato subito a una fuga?»
«No, non subito. La roba dei ragazzi era ancora tutta negli scatoloni e non era facile capire se avessero portato via qualcosa con loro…»
«Ma alla fine,» insisté Thorne «la polizia deve averlo pensato.»
«Sì, dopo un paio di giorni ho scoperto quali vestiti mancavano. Era scomparso anche del denaro, ma ci ho messo più tempo a rendermene conto. Dopo aver saputo la storia dei ragazzi e quello che avevano passato, gli agenti hanno detto a Roger che quasi certamente erano scappati di casa.»
«E cos’hanno fatto?»
«Oh, sono stati molto bravi. Li hanno fatti cercare dappertutto. Appelli, informazioni, controlli. Hanno preso il caso davvero sul serio, almeno per le prime due settimane. Roger mi teneva informata di tutto.»
«Roger…»
«Sì. Andava al commissariato tutti i giorni, talvolta anche due volte al giorno, per sapere a che punto erano le indagini.»
«E dopo le prime due settimane, cosa è successo?»
«Un ispettore capo ha detto a Roger che certamente ai ragazzi non era accaduto nulla di male. Altrimenti, la polizia lo avrebbe senz’altro saputo. Penso che volesse dire che avrebbero trovato i corpi…»
La pelle sotto l’unghia che Irene Noble continuava a tormentarsi aveva iniziato a sanguinare. Lei inumidì un tovagliolo con la lingua e se lo premette sul dito. Quando riprese a parlare, il tono affettato era sparito e l’accento dell’Essex era più forte che mai.
«Non avendo avuto figli miei» disse «non so con sicurezza se mi sarei preoccupata per loro più di quanto feci per Mark e Sarah. Capite cosa voglio dire? Dopo che Roger mi ha assicurato che stavano bene, a poco a poco abbiamo smesso di preoccuparci. Ci mancavano, certo, ma ce ne siamo fatti una ragione…»
«Lei ha mai parlato di persona con un poliziotto?» chiese Thorne. «Durante tutto il tempo in cui sono durate le ricerche dei due ragazzi, intendo dire.»
Thorne si aspettava di vederla tacere per un attimo, o forse impallidire. Invece Irene Noble sorrise. Poi il sorriso si spense e il viso si riempì di malinconia.
«Roger ha voluto evitarmi la sofferenza di dovermi occupare direttamente della cosa. Ha fatto tutto lui, si è assunto ogni responsabilità, solo per non farmi soffrire. Sono sicura che sia stata tutta quella tensione, in aggiunta alla faccenda della scuola, a farlo morire prima del tempo.»
Thorne sbatté le palpebre e respirò a fondo un paio di volte. Un sospetto, una sensazione, cominciò a coagularsi in qualcosa di più definito. «Quale faccenda della scuola?» chiese.
«Roger lavorava alla St Joseph, la scuola dove sarebbero dovuti andare anche Mark e Sarah» spiegò la signora Noble con naturalezza, come se il fatto che poi non ci fossero andati fosse del tutto irrilevante. «Era un lavoro part-time, praticamente era un po’ il factotum della scuola. Ma un giorno un tizio, il padre di uno scolaro, si è presentato a casa nostra e ha cominciato a inveire, dicendo che suo figlio era stato coinvolto in non so quale episodio e che aveva fatto il nome di Roger. Erano tutte menzogne, naturalmente, ma lui non ha voluto sentire ragioni ed è andato a protestare dal preside. La scuola avrebbe voluto mettere la cosa a tacere, com’è ovvio, perché si trattava di una sciocchezza, ma Roger ha preferito andarsene, piuttosto che mettere a disagio i ragazzi. Era tipico del suo modo di essere. Ancora adesso non riesco a immaginare come qualcuno abbia potuto pensare… Abbiamo sempre avuto dei bambini, in casa, dopo la scuola, durante le vacanze…»
«Roger amava i bambini…»
Lei alzò gli occhi, con lo sguardo pieno di gratitudine per la comprensione di Thorne. «Proprio così. Lui non lo avrebbe mai ammesso, ma io credo che circondarsi di altri bambini fosse il suo modo di reagire alla perdita di Mark e Sarah… Poi, però, dopo tutti quei fatti spiacevoli, il carico di dolore è diventato eccessivo e il suo cuore non ha retto.»