Thorne si avvicinò a una scrivania e sollevò la cornetta, tenendola contro il petto finché Karim non fu abbastanza lontano.
«Eccomi. Cosa c’è?»
«Niente di importante. Solo una piccola variazione di orari per sabato. Avevo detto che sarei uscita prima e Keith mi aveva assicurato che avrebbe chiuso il negozio al mio posto. Adesso, invece, è saltato fuori che lui dovrà uscire ancora prima di me, quindi sono un po’ incasinata.»
«Non importa, vieni appena puoi.»
«Certo. Era solo che avrei preferito arrivare da te presto e rilassarmi un po’, prima di uscire a cena…»
«Sembra interessante.»
«Ma a questo punto non sarò lì prima delle sette, visto che devo chiudere il negozio e passare da casa.»
«Anch’io non credo che arriverò molto prima di quell’ora.»
«Mi dispiace dover cambiare i nostri accordi, ma non è colpa mia. Keith di solito è affidabile e… Tom?»
La voce di Eve gli arrivava come da lontano. Thorne non l’ascoltava più.
I nostri accordi.
La certezza lo afferrò e gli si strinse addosso come un cappio. In un secondo, Thorne capì esattamente che cosa aveva mancato di notare. Il particolare che era sempre rimasto nell’ombra e che ora emergeva in piena luce.
Qualcosa che aveva letto e qualcosa che non aveva letto.
Avevano trovato tutte le lettere di Jane Foley a Remfry, quelle inviate in carcere e quelle spedite a casa dopo il rilascio. Nulla lasciava pensare che ci fossero lettere mancanti. Eppure mancava qualcosa.
Thorne aveva letto e riletto tutte le lettere almeno una dozzina di volte e in nessuna di esse Jane si era accordata con Remfry per incontrarlo da qualche parte. Non si era mai parlato di un appuntamento, almeno non in termini di ora e data. Non era mai stato fatto il nome di un hotel…
Perciò in quale modo si erano accordati?
Dave Holland aveva scritto qualcosa che Thorne ricordava di aver letto. Era nel primo rapporto redatto da Holland dopo la visita a casa di Remfry. Quel giorno, poco prima che le lettere venissero ritrovate sotto il letto, Mary Remfry aveva voluto ribadire che il figlio aveva successo con le donne. Che c’erano donne che gli ronzavano intorno, dopo il suo rilascio, donne che gli telefonavano…
Remfry, Welch e Southern non erano entrati in quelle stanze d’albergo semplicemente pensando che avrebbero incontrato Jane Foley. Ne erano certi.
Avevano parlato con lei.
CAPITOLO 25
«E non solo per telefono» disse Holland. «Gli altri non so, ma Southern potrebbe perfino averla incontrata.»
Erano nell’ufficio di Brigstocke, prima di un briefing convocato d’urgenza, diciotto ore dopo la scoperta di Thorne che c’era anche una lei.
«Continua, Dave» disse Brigstocke.
«Ho parlato con l’ex ragazza di Southern…»
Thorne ricordava di aver letto la deposizione della donna. «Si erano lasciati poco prima che fosse ucciso, se non sbaglio.»
«Esatto. E lei ha raccontato che il motivo principale per cui lo ha lasciato è che aveva sentito parlare di un’altra donna. Sembra che Southern si fosse vantato al pub, con gli amici, di aver rimorchiato una tipa fantastica. Anzi…»
«Che cosa?»
«Dovrei rileggere la deposizione, ma se non sbaglio sembra che Southern avesse detto ai suoi amici che era stata lei ad abbordarlo.»
Thorne guardò le fotografie in bianco e nero sparse sulla scrivania di Brigstocke. «Jane Foley» disse.
«Ma chi è, realmente?» disse Kitson.
«Potrebbe essere chiunque» rispose Thorne. «Non possiamo trascurare nessuna possibilità. Una modella ingaggiata per l’occasione, una prostituta. L’assassino potrebbe averla usata per le foto, offrendole un extra perché telefonasse a Remfry e a Welch e abbordasse Southern…»
Brigstocke stava radunando i suoi appunti. Non credeva a una parola di ciò che Thorne stava dicendo, non più di quanto ci credesse lo stesso Thorne. «No, è Sarah, la sorella. Deve essere lei.»
«Con il nome della madre» aggiunse Thorne.
«La madre è il perno di tutta la faccenda» sottolineò Holland. «Tutto gira intorno a Jane.»
«Tutto gira intorno a una famiglia» puntualizzò Thorne.
«Il che significa,» intervenne Brigstocke «che tutto è ancora più complicato e ingarbugliato di quanto riusciamo a immaginare.»
«Io comincio a immaginarmelo» disse Thorne, come se pensasse ad alta voce. «La famiglia può fare molti danni.»
«Abbiamo finito?» chiese Yvonne Kitson e si avviò verso la porta senza attendere la risposta. «Ho ancora un paio di cose da fare prima che inizi il briefing.»
«Direi che possiamo andare. Tutto chiaro?» Brigstocke guardò l’ora, poi il viso di Thorne, molto meno facile da decifrare del quadrante dell’orologio. «Bene, allora cominciamo tra cinque minuti.»
Il messaggio che lo avvisava della telefonata arrivata per lui era scarabocchiato a mano su un foglietto, che Holland appallottolò mentre componeva il numero.
«Signora Noble? Sono l’agente Holland. Grazie per aver chiamato.» Si era ripromesso di richiamarla lui, il giorno prima, ma dopo l’intuizione di Thorne tutti i programmi erano saltati.
«Ho ascoltato il suo messaggio un po’ tardi,» disse lei «e non mi è sembrato il caso di disturbarla a casa.»
«La prossima volta non si faccia scrupoli» la esortò Holland. In ogni caso, la sera prima probabilmente non avrebbe neppure sentito il telefono, assordato com’era dalle urla di Sophie.
«Le foto mi verranno restituite, vero?»
«Certamente, glielo prometto.»
«Ci metterò un po’ di tempo a trovarle. Sono in cantina. O forse in soffitta, non ne sono sicura. Ma le troverò.»
Holland si voltò verso la sala di pronto intervento che si stava riempiendo. Senza dubbio, fuori c’erano ancora una dozzina di fumatori, intenti a dare l’ultimo tiro alla sigaretta prima del briefing, ma la maggior parte delle sedie e delle scrivanie era già occupata.
«Crede di farcela in un paio di giorni?»
«Sì, direi di sì. Ho accumulato tanta di quella roba inutile, nel corso degli anni…»
«Quando le avrà trovate, possiamo passare noi a prenderle?»
«Certo» rispose Irene Noble. «Venite quando volete, io non mi muovo di qui.»
Thorne era solo nell’ufficio di Brigstocke. Mancavano pochi minuti all’inizio del briefing. Brigstocke era già nella sala di pronto intervento. Dopo di lui, avrebbe parlato Thorne.
Era in piedi accanto alla scrivania e fissava le foto della donna. Una serie di immagini attentamente costruite per tentare e sedurre, per offrire, ma senza concedere nulla.
Thorne non aveva modo di sapere con certezza se la donna delle foto fosse Sarah Foley. In realtà, non importava. Era lì, e allo stesso tempo non c’era. Nella maggior parte delle foto era in ginocchio, con la testa china, oppure in ombra. Thorne studiò le immagini una per una, sperando in un’altra illuminazione.
Ma a parte il messaggio seduttivo che mandavano, quegli scatti non gli rivelarono nulla di nuovo. Anche dal punto di vista dei dettagli fisici erano poco significativi, a parte il motivo costante della sottomissione. In alcune foto la donna sembrava avere i capelli scuri, mentre in altre risultavano più chiari. In un paio era addirittura bionda, ma poteva trattarsi di una parrucca. Il corpo, poi, pareva cambiare a seconda della posa e della luce. Era alternativamente flessuoso e muscoloso e la posizione in cui la donna si trovava rendeva impossibile giudicarne l’altezza e perfino la corporatura.
Sarah Foley, se si trattava di lei, restava ancora nascosta.
Thorne guardò l’orologio. Di lì a un minuto sarebbe toccato a lui parlare. Il suo compito era quello di galvanizzare la squadra, di portarla a segnare il gol della vittoria.