Nei giorni successivi avrebbero lavorato tutti come muli, lui per primo. Avrebbero dovuto ripercorrere tutto il corso dell’indagine e rivedere il lavoro già fatto alla luce della nuova pista, ma lo slancio era positivo. Thorne avvertiva come un’accelerazione collettiva delle pulsazioni. L’indagine stava prendendo velocità e da quel momento in poi Thorne avrebbe fatto in modo che nulla più potesse sfuggirgli.
Comunque, a parte l’eventualità di un arresto, il fine settimana prometteva di lasciargli un po’ di tempo libero. Il sabato sera sarebbe stato dedicato a Eve e la domenica a suo padre. Thorne si concesse un sorriso. Se sabato fosse andato tutto come sperava, la mattina successiva non sarebbe partito tanto presto per St Albans.
Karim apparve sulla soglia, lanciandogli uno sguardo significativo.
«Arrivo, Sam» lo rassicurò Thorne.
Avrebbe parlato con autentica passione ai poliziotti che lo stavano aspettando. Voleva prendere quell’assassino, adesso più che mai, e voleva diffondere quel desiderio come un’epidemia. Voleva suscitare quell’inebriante sensazione fatta di disperazione e di fiducia al tempo stesso che a volte riusciva a far accadere le cose da sole.
Non avrebbe parlato, invece, dell’altra sensazione che aveva dentro, quella che gli causava una vertigine…
Era vero, si stavano muovendo velocemente, adesso. Ma Thorne non poteva fare a meno di sentire che qualcosa si stava muovendo con la stessa velocità e determinazione verso di loro. Ci sarebbe stata presto una collisione, ma lui non era in grado di prevedere quando, né in quale direzione.
Sarebbe arrivata all’improvviso.
Thorne raccolse le foto dalla scrivania, le infilò in un raccoglitore e si avviò verso la sala di pronto intervento.
CAPITOLO 26
Le loro voci erano poco più che sussurri.
«Ti ho svegliato?»
«Che ora è?»
«È tardi. Torna a dormire.»
«No, non c’è problema…»
«Mi dispiace.»
«Stavi facendo di nuovo quel sogno?»
«È un periodo in cui lo faccio ogni notte. Cristo…»
«Prima non ti capitava mai, vero? Ero io quello che faceva i brutti sogni.»
«Be’, ora mi capita. Credi che smetteranno, dopo?»
«Cosa?»
«I sogni. Smetteranno, quando sarà tutto finito?»
«Lo sapremo presto.»
«Sono nervosa per il prossimo.»
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
«Non abbiamo lo stesso controllo della situazione che avevamo con gli altri. Con loro sapevamo cosa aspettarci, sapevamo tutto ciò che poteva accadere. E anche gli hotel erano un vantaggio. Luoghi prevedibili…»
«Andrà tutto bene.»
«Hai ragione, lo so. Il fatto è che, quando mi sveglio così, ho la testa ancora piena delle immagini del sogno e mi sento confusa.»
«È l’unico motivo per cui sei nervosa? La paura che qualcosa vada storto?»
«Quale altro motivo dovrebbe esserci?»
«Allora non preoccuparti.»
«Comunque sarà meglio che tu sia puntuale.»
«Non essere sciocca…»
«Cazzo, farai meglio a essere puntuale, capito? Pensa al traffico.»
«Non ho mai avuto problemi con il traffico e sono sempre stato puntuale.»
«Lo so, scusami.»
«E Thorne?»
«Thorne non è un problema.»
«Bene.»
«Sono stanca. Devo cercare di dormire, ora.»
Lui le accarezzò il ventre con una mano. «Vieni qui, ti aiuto a prendere sonno…»
CAPITOLO 27
Non molto tempo prima, in una notte gelida in cui il freddo e la solitudine formavano una coppia perfetta, Thorne aveva composto un numero copiato da una cartolina sulla vetrina di un giornalaio. Si era recato in un seminterrato di Tufnell Park, dove aveva sborsato alcune banconote ed era rimasto a guardare una mano rosea e paffuta che lo masturbava. Aveva ascoltato i gemiti poco convincenti della donna e il tintinnio dei suoi braccialetti mentre la mano andava su e giù. Aveva udito il proprio respiro e il grugnito disperato con cui era venuto.
Poi era tornato a casa e si era infilato a letto, dove aveva ripetuto lo stesso copione, da solo, risparmiando venticinque sterline.
Ora, Thorne camminava avanti e indietro nel suo ufficio ricordando quell’avventura con un piacere perfino inferiore a quello che aveva provato allora. E la confrontava con la piacevole prospettiva di trascorrere la notte con Eve Bloom.
Quella sera avrebbe lasciato Becke House con uno spirito decisamente positivo, come non gli capitava da tanto tempo. Le cose avevano iniziato a prendere velocità. Erano passati pochi giorni da quando la donna che poteva essere Sarah Foley era balzata in prima linea nell’indagine, e i risultati erano già molto incoraggianti.
Avevano interrogato di nuovo l’ex fidanzata di Southern, confermando la sua storia a proposito di un’altra donna, quindi erano riusciti a stanare diverse persone che dichiaravano di aver visto Southern in compagnia di una donna nei giorni immediatamente precedenti la sua morte. Le descrizioni erano vaghe e contraddittorie, ma sembravano concordare sul fatto che lei fosse “snella e bionda”. La cameriera di un bar disse di averla vista trascinare Southern in un angolo buio, dove gli era “saltata addosso, come se lo volesse soltanto per lei”. Un identikit elaborato al computer era risultato più scialbo e anonimo del solito. La donna artificialmente ricostruita non era più presente e vera di quanto lo fosse nelle foto che aveva mandato alle vittime.
Eppure, era pur sempre un progresso…
Un’altra linea di indagine implicava la possibilità che la donna, oltre ad adescare le vittime, assistesse alla loro morte per mano dell’assassino. Ma Thorne aveva parecchi dubbi al riguardo.
Erano tornati negli hotel di Paddington, Slough e Roehampton e avevano fatto altre domande. Nulla di interessante era emerso dal riesame dei nastri della tivù a circuito chiuso, ma questo era prevedibile. Se Mark Foley sapeva dove erano localizzate le telecamere, era logico che lo sapesse anche la sorella. Una donna, che lavorava alla reception del Greenwood Hotel la notte in cui era stato ucciso Ian Welch, ricordava di aver visto una bionda nei paraggi. Aveva pensato che facesse parte del gruppo riunito al bar per una festa, ma non l’aveva vista parlare con nessuno. Riteneva che avesse “un aspetto strano”.
Thorne non sapeva con certezza quale fosse il ruolo della donna e si chiedeva di che cosa l’avrebbero accusata, se mai fossero riusciti ad arrestarla. “Collaborazione in atti delittuosi” era forse il capo d’imputazione più probabile. Sì, forse si era fatta vedere negli hotel, magari aveva anche aperto la porta alle vittime, mentre Mark Foley se ne stava nascosto, con il cappio di corda da bucato in mano…
Ma a parte quello?
Se quella donna era davvero Sarah Foley, Thorne non riusciva a immaginarsela nell’atto di guardare. E non riusciva a immaginarsi neppure il fratello che si lasciava guardare mentre violentava brutalmente un altro uomo.
Era proprio il genere di pensieri oscuri e mostruosi che Thorne intendeva bandire dalla sua mente, almeno per quella sera. Attraversò la sala di pronto intervento, salutando tutti. Le porte dell’ascensore si aprirono mentre lui si avvicinava e così ci saltò dentro, affrettandosi a premere il bottone della discesa. Le porte si richiusero, facendo sparire alla vista la stanza, le scrivanie, perfino il caso…
Uscito dall’ascensore, Thorne si diresse verso il parcheggio pensando a cosa avrebbe indossato quella sera. Probabilmente avrebbe avuto una buona mezz’ora per prepararsi, prima dell’arrivo di Eve. Forse anche di più, se avesse trovato poco traffico.