La BMW si avvicinò alla sbarra del parcheggio e quindici secondi dopo era in strada. Thorne scelse una compilation dei Carter Family e alzò il volume dello stereo. Che musica avrebbe scelto per la serata? Sperava che Eve non fuggisse urlando dall’appartamento, alle prime note di musica country.
Era davvero un cretino. Perché aveva rimandato così a lungo quel momento?
Era ancora infantilmente eccitato per la macchina nuova. Gli piaceva guardarla e sentirla. Pigiò il piede sull’acceleratore, godendosi il rumore del motore e sorridendo mentre imboccava la North Circular, diretto a casa.
Tutto cominciava a prendere velocità…
Holland attraversò il Lambeth Bridge. Casa sua era a meno di dieci minuti. Pensò a quando aveva attraversato il fiume un po’ più a est, la settimana prima, sull’auto nuova di Thorne.
E pensò all’espressione di Sophie, quando poco più tardi lo aveva trovato inginocchiato sul pavimento del bagno. Lui aveva appena finito di vomitare e, alzando la testa, aveva scorto un profondo solco di preoccupazione sul volto della moglie. Allora, con la strana chiarezza che solo l’alcol a volte riesce a dare, aveva capito, per la prima volta, che Sophie era preoccupata non per lui, ma per se stessa e per il bambino che portava in grembo. Era preoccupata di aver commesso un grosso errore, scegliendo lui come padre del suo bambino.
Il mal di testa da sbronza gli era passato molto prima del senso di colpa.
Holland decise che avrebbe fatto del suo meglio perché quella fosse una bella serata. Si sarebbe fermato a comprare una bottiglia di vino e lui e Sophie l’avrebbero bevuta a tavola, finendola poi davanti alla tivù. Sophie beveva ancora volentieri, di tanto in tanto. Il dottore diceva che le faceva bene. Ma prima della gravidanza non si sarebbe certo limitata a un solo bicchiere. Era capace di scolarsi senza problemi un’intera bottiglia, lasciando Holland nel dubbio se il vino l’avrebbe resa dolce o provocante. A lui piaceva in entrambi i casi, sia quando era allegra e sexy, sia quando lo abbracciava stretto e cominciava a parlare del futuro. In un modo o nell’altro, finivano sempre a letto.
Prima della gravidanza…
C’era una serie di negozi prima dell’Imperial War Museum: una drogheria turca, una cartoleria e una rivendita di alcolici. Scendendo dall’auto, Holland si sentì invadere dalla tristezza al pensiero che gli riusciva sempre più difficile ricordare com’erano le cose prima che Sophie rimanesse incinta.
Le cose belle, almeno.
Non ci metteva mai molto a prepararsi.
Nessun abbigliamento speciale. Nessun rituale inutile. Nessun periodo di intensa preparazione mentale.
Certo, pensava a ciò che doveva fare e controllava ogni particolare. Ma non ci metteva più tempo che a preparare la borsa.
Non aveva molta roba da portare con sé. Solo uno zainetto. Nei casi precedenti, in quelle stanze d’hotel, si era portato una borsa più grande, in cui poi avrebbe messo lenzuola, federe e copriletto. Stavolta non era necessario.
I guanti, il cappuccio, le armi…
Aveva già affilato il coltello e aveva tagliato un lungo pezzo di corda da bucato, infilandolo nella tasca frontale dello zainetto di pelle nera.
Era strano pensare a ciò che la gente si portava dietro. Chissà quali segreti sarebbero venuti fuori dalle sacche sportive, dagli zainetti e dalle ventiquattrore dei passanti. Certo, sarebbe stato necessario scartare un bel po’ di documenti, cartelline, giornali, sandwich avvolti nella pellicola trasparente, prima di trovare qualcosa di interessante. Una richiesta di riscatto, per esempio, o una lettera anonima. Forse una rivista porno, un paio di manette. Magari, con un po’ di fortuna, una pistola, un martello macchiato di sangue, o un dito amputato…
E, senza dubbio, ci sarebbe stato da sorprendersi ancora di più se tutto ciò fosse saltato fuori dalla borsetta di una donna.
Sorrise, infilando le ultime cose nello zainetto e chiudendo la cerniera. Chiunque vi avesse frugato dentro sarebbe rimasto alquanto imbarazzato.
Thorne si stava guardando nello specchio inserito nell’anta dell’armadio, cercando di decidere se fosse meglio la camicia bianca o quella di jeans, quando suonò il campanello.
Mentre andava ad aprire, abbassò un po’ il volume dello stereo. Dopo qualche incertezza, aveva deciso di cominciare con George Jones. Poi aveva selezionato alcuni classici degli anni Cinquanta e infine, quando fosse giunto il momento giusto, le canzoni di Billy Sheril di vent’anni dopo. Di certo non esisteva una canzone più romantica di He stopped loving her today…
Eve avanzò fino al centro della stanza, lanciò un’occhiata tutt’intorno, poi fissò Thorne. «Hai un aspetto molto estivo» commentò.
Indossava un semplice vestito di cotone abbottonato sul davanti. «Anche tu» disse Thorne, poi, abbassando lo sguardo sulla camicia bianca, aggiunse: «Avevo pensato di mettermi la cravatta…»
Lei gli si avvicinò. «Andiamo forse in un posto elegante?»
«No.»
«Bene. E poi mi piaci con il colletto sbottonato.»
Si baciarono, e le loro mani si fecero sempre più frenetiche a ogni secondo che passava.
Thorne era già al secondo bottone quando Eve si allontanò, ridendo. «È vero che una scopata acrobatica a stomaco pieno non è l’ideale,» disse «ma vorrei comunque mangiare qualcosa, prima, e non disdegnerei un drink…»
Thorne rise. «Dici che fa troppo caldo per una cena indiana?»
«Per il curry è sempre la stagione giusta.»
«C’è un ottimo ristorante indiano proprio qui all’angolo.»
«Perfetto.»
«Oppure possiamo andare a Islington, o a Camden. Non sei ancora salita sulla mia macchina nuova…»
Eve si avvicinò alla finestra, riabbottonandosi il vestito. «No, restiamo in zona. Se devi guidare non puoi bere, e sarebbe sleale che si ubriacasse soltanto uno dei due.»
«Come preferisci. Prendo la giacca…»
«Aspetta, non dobbiamo uscire proprio adesso.»
«No?»
Eve si voltò, sollevando le braccia per aggiustarsi i capelli. I seni tesero la stoffa del vestito e Thorne notò la pelle arrossata sotto le ascelle depilate. «Ho una cosa per te nel furgone» disse lei. «E mi serve una mano per portarla dentro.»
Guardando l’orologio sul cruscotto, Holland si rese conto che era fermo sotto casa da quasi un quarto d’ora.
Erano le sette e qualche minuto.
Un quarto d’ora seduto in macchina, con la bottiglia di vino nel sacchetto di plastica tra le mani. Incapace di scendere.
Passarono altri minuti e Holland si accorse delle macchie scure che si erano formate sui suoi pantaloni. Solo allora capì che stava piangendo. Sollevò la testa e chiuse gli occhi, mentre il respiro gli si bloccava in gola, diventando un singhiozzo.
Holland si piegò in avanti, con la bottiglia tra la faccia e il volante.
Sentiva il fresco del vetro attraverso il sacchetto e le lacrime che lo scaldavano, mentre ogni singhiozzo disperato gli risucchiava la plastica in bocca…
Holland non poté fare altro che buttare fuori tutto. Come il vomito della settimana prima.
Pianse per se stesso, per Sophie, per il figlio che sarebbe nato di lì a cinque settimane. Pianse, sentendosi colpevole, triste, stupido e spaventato. Le lacrime che bruciavano di più, tuttavia, erano di rabbia. Rabbia per l’egoista senza spina dorsale che sapeva di essere diventato.
Quando finì, Holland si asciugò gli occhi con la manica, come un bambino.
Tirò su con il naso, fissando le finestre dell’appartamento. Prima la confusione e una patetica paura senza nome gli avevano impedito di salire in casa. Adesso era la vergogna a trattenerlo.
Non poteva vedere Sophie, non ancora.
Holland fissò la ventiquattrore sul sedile del passeggero. Anche se si fosse portato il lavoro a casa e avesse cercato di isolarsi, il primo sorriso di Sophie avrebbe scatenato di nuovo il pianto.