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Pen tirò un profondo sospiro. Le girava la testa e si sentiva mancare. Qualcosa non va, pensò. Troppa vodka? Avrebbe voluto bere un altro sorso, ma non osò.

La foto successiva mostrava un uomo.

Era su un tavolo, un panno blu gli copriva la faccia. Era nudo. La pelle rossa. «Questo non è lividore post-mortem, né scottatura da sole. Questa è cianosi», spiegò il medico legale. Pen seguitò a sbirciare il pene inerte del morto, distolse lo sguardo, guardò di nuovo.

Chiuse gli occhi. Aveva la faccia fredda e tirata. Se la sfregò con una mano. Era umida.

Lo chiamano sudore freddo, si disse.

Cristo.

Che cosa ci faccio qui?

Apparve un primo piano di una faccia scarna. Un uomo con le basette lunghe. E una macchiolina bianca fra i peli della narice sinistra. «Sempre la natura che lavora», commentò il coroner.

Pen sentì un ronzio nelle orecchie.

Il coroner indicò la chiazza bianca. «Uova di mosche. Simili a piccoli orologi. Sappiamo che se ne sono andate dopo la morte, perciò…»

Pen posò il bicchiere sul pavimento, raccolse la borsa e l’ombrello. Si alzò sulle gambe tremanti, passò davanti a Gary e si fece strada lungo la parete della sala finché raggiunse la scala che era piuttosto stretta. Si fermò, temendo di non riuscire a scendere. Si disse: forza, devo uscire di qui prima di vomitare.

Tenendo il manico dell’ombrello sul polso sinistro, afferrò la ringhiera di legno e iniziò a scendere.

Aveva la bocca piena di saliva. La scala era buia. Quando lei sbatteva le palpebre, lampeggiava una scarica elettrica azzurrognola. Strinse la ringhiera facendo scivolare la mano, pronta ad appoggiarsi se le gambe avessero ceduto.

O svieni o vomiti, pensò. Una delle due.

Dio che disastro.

Uova di mosca.

Si controllò, la gola serrata, le lacrime agli occhi.

Arrivò in fondo alla scala e inspirò profondamente l’aria fresca. Servì. Il suono della pioggia sul cortile davanti a lei era gradevole. Sembrava piovesse più forte di prima.

Tremava ancora leggermente, ma ci vedeva meglio e la fredda morsa allo stomaco si stava allentando. Arricciò le labbra e allargò la bocca. Le guance non erano più intorpidite.

Aprì l’ombrello e si domandò che cosa doveva fare. Una cosa era certa, non sarebbe tornata di sopra. Restavano due alternative: poteva attraversare il cortile fino al bar del Circolo e aspettare che la riunione terminasse, o andare a casa.

Forse Gary si sarebbe fermato al bar dopo la fine della conferenza e in tal caso potevano nascere dei guai.

Probabilmente alla fine avrebbe dovuto respingerlo.

Meglio andare.

Pen si incamminò verso l’ingresso. La pioggia tamburellava sul suo ombrello mentre lei attraversava di corsa il cortile e scendeva gli scalini di cemento per raggiungere il parcheggio.

Venti minuti dopo, chiuse la porta del suo appartamento e attaccò l’ombrello gocciolante sulla maniglia. Con la schiena appoggiata alla porta per tenersi in equilibrio, si sfilò gli stivali. Li portò nella camera da letto e accese la luce.

Era bello togliersi i vestiti. Appese la gonna umida nell’armadio, infilò un paio di vecchi mocassini e indossò la vestaglia. L’indumento era morbido sulla pelle.

Accese il riscaldamento in bagno. Poi andò in cucina e prese dal frigorifero una bottiglia di Borgogna.

Un bicchiere di vino, un buon libro, un lungo bagno caldo… la vita era bella. Valeva la pena tornare a casa.

Il tappo uscì con un leggero schiocco.

Pen prese dall’armadietto un bicchiere di cristallo e lo riempì. Tornò in bagno. Bevve un sorso, il vino era freddo in bocca, caldo dopo che lo ebbe inghiottito. Il suo calore dilagò.

Bello, pensò Pen.

Molto meglio che restar seduta nel bar del Circolo della Stampa.

Qualcosa avrebbe potuto nascere dall’incontro con Gary.

Scordatelo.

Lui avrebbe cercato solo di ottenere qualcosa. Lo fanno tutti. E se non ci stai, tentano di costringerti. All’inferno gli uomini.

Posò il bicchiere e la bottiglia accanto alla vasca in modo da averli a portata di mano. Si inginocchiò, mise il tappo e girò il rubinetto dell’acqua calda. Ottenne la temperatura giusta, quasi bollente, poi si asciugò le mani e andò a prendere un libro.

Senza il cordone allacciato, la vestaglia si aprì. La lasciò aperta, troppo pigra per riallacciarlo.

Accese la luce nello studio. Sulla scrivania c’era il nuovo libro di Dean Koontz. Era un’edizione con la copertina rigida, poco adatta a essere letta nella vasca.

Si avvicinò alla libreria, sbatté la coscia contro lo spigolo della scrivania e gridò per il dolore. Sfregandosi la parte, si lasciò cadere sulla sedia.

«Gesù!» borbottò.

Quando il dolore diminuì, alzò la mano. Niente sangue sulla gamba, ma la pelle s’era sbucciata lasciando scoperta la carne viva; emise un sospiro sommesso e pensò: accidenti, perché non guardo dove vado? Chissà che male mi farà con l’acqua calda.

Fece per alzarsi.

Fu allora che notò la luce rossa della segreteria telefonica che lampeggiava. Guardò più attentamente.

Quattro chiamate mentre era fuori. Una sera movimentata.

Riavvolse il nastro e premette il tasto per ascoltare i messaggi, poi si voltò e si diresse nuovamente verso gli scaffali della libreria.

«Ciao, bellezza.» Pen non riconobbe la voce dell’uomo. «Mi dispiace che non sei in casa. Volevo parlarti del mio grosso cazzo e della tua calda figa.»

Quelle parole le mozzarono il fiato. Pen si girò di scatto, fissò il registratore.

«Ti piacerebbe se ti fottessi fino a farti saltare il cervello, eh? Sicuro, te lo metto…»

La ragazza si slanciò verso la scrivania con il braccio teso, le dita rigide pronte a colpire la voce. Ridurla al silenzio. La prevenne la segreteria telefonica, un tranquillo bip segnalò la fine del messaggio.

Pen aveva le gambe molli, si aggrappò alla scrivania, i gomiti ai fianchi, le mani sul legno.

Secondo messaggio.

Stessa voce.

«Che ne diresti se ti cacciassi la lingua…»

Lei premette il tasto dello stop.

Chiuse gli occhi, chinò la testa. Respirò profondamente mentre le martellava il cuore.

Maledetto maniaco demente. Meno male che non ero in casa. Meglio le uova di mosca che…

Pen aprì gli occhi. Sbirciò il ciuffo biondo fra le gambe. Strinse la vestaglia e allacciò stretto il cordone. Poi guardò la segreteria telefonica.

Forse il bastardo aveva smesso dopo due telefonate.

Premette il tasto, «…ti vengo in bocca, voglio bombardarti giù, giù…»

Spinse con forza il tasto, la cassetta scattò in su. Pen la prese dall’apparecchio e la gettò via.

3

Si dirigevano a ovest sulla Highway 10, un’ora dopo aver lasciato Phoenix; i fari del suo furgone Volkswagen bucavano l’oscurità e illuminavano più di quanto a Bodie interessasse vedere oltre la corsia.

Oltre lo steccato non c’era niente.

Nada.

Diavolo, c’è un sacco di roba laggiù, pensò lui. Rocce, sabbia, cactus, tarantole e scorpioni. Ed erbacce.

Si ricordò di un vecchio episodio di Thriller o forse di The Outer Limits (difficile ricordare quale dei due), dove una coppia era rimasta bloccata in una zona simile a questa. Circondati da…

Una pallida forma delle dimensioni di un bidone per le immondizie attraversò sfrecciando la luce dei fari. Bodie premette il freno, ma la cosa era già sparita oltre la corsia.

Un animale doveva aver saltato il recinto.

Bodie si sentì rizzare i capelli in testa.

«Viene a cercarci», disse citando la sua frase preferita di La notte dei morti viventi. Poi tentò di sorridere.