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«No, non è vero», dissi ad alta voce. Cercai d’immergermi nella calma profonda che spesso il pericolo suscita in me. Non è vero. Diedi volutamente un colpetto al cadavere riverso sul pavi­mento solo per accertarmi di essere ancora lì, e non sul punto d’impazzire; ero terrorizzato dall’imminente disorientamento, ma non arrivò; poi urlai.

Urlai come un bambino.

E corsi fuori di lì.

Fuggii a gambe levate, lungo il corridoio, uscendo dalla porta posteriore e sbucando nella vasta notte.

Salii sopra i tetti e poi, esausto, mi lasciai cadere in un angusto vicoletto, sdraiandomi sui mattoni. No, non poteva essere suc­cesso davvero. Si trattava di un’ultima immagine proiettata da lui, la mia vittima; aveva creato quell’immagine da morto, una dolce vendetta. Facendo sembrare viva quella statua, quell’enor­me oggetto scuro e alato, dalle zampe caprine...

«Già», dissi. Mi asciugai le labbra. Ero steso sulla neve spor­ca. C’erano altri mortali in quel vicoletto. Non infastidirci. Non lo farò. Mi asciugai di nuovo le labbra. «Già, vendetta; il suo amore per tutte le cose conservate in quell’appartamento, e me l’ha scagliato addosso. Sapeva. Sapeva cos’ero. Sapeva come...» esclamai ad alta voce.

Inoltre, la Cosa che mi pedinava non era mai stata così tran­quilla, così immobile, così meditabonda. Si era sempre gonfiata e sollevata come fumo denso e puzzolente, e quelle voci... Si era trattato di una semplice statua, quella che avevo appena visto.

Mi alzai, furibondo con me stesso, assolutamente furibondo per essere fuggito, per aver trascurato l’ultimo trucchetto incluso nell’intera uccisione. Ero abbastanza furibondo per tornare là, prendere a calci il suo cadavere e quella statua, che era sicura­mente ridiventata di granito nell’istante esatto in cui la vita aveva abbandonato il cervello moribondo del suo proprietario.

Braccia e spalle fratturate. Come se, dall’ammasso sanguino­lento in cui l’avevo trasformato, lui avesse evocato quella cosa.

E Dora lo verrà a sapere. Braccia e spalle fratturate. Collo spezzato.

Raggiunsi la Quinta Avenue. Continuai a camminare nel vento.

Affondai le mani nelle tasche del mio blazer di lana, di gran lunga troppo leggero per apparire adeguato a quella quieta tor­menta, e passeggiai a lungo. «D’accordo, dannazione, sapevi co­s’ero e per un attimo hai fatto sembrare viva quella cosa.» M’immobilizzai fissando, oltre il traffico, la buia boscaglia ammantata di neve di Central Park. «Se è tutto collegato, vienimi a prende­re.» Adesso non stavo parlando con lui o con la statua, bensì col Pedinatore. Mi rifiutavo di avere paura. Avevo soltanto perso la testa.

E dov’era David? A caccia da qualche parte? Caccia... l’atti­vità che, da mortale, aveva amato così tanto praticare nella giun­gla indiana, e io lo avevo trasformato per sempre nel cacciatore dei suoi fratelli.

Presi una decisione. Sarei tornato subito nell’appartamento. Avrei esaminato quella dannata statua e accertato che era inani­mata, e poi avrei fatto quello che dovevo fare per Dora: sbaraz­zarmi del corpo di suo padre.

Impiegai solo pochi istanti per tornare indietro, per salire di nuovo la stretta scala posteriore nera come la pece ed entrare nell’appartamento. Ormai ero esasperato dalla mia paura, furi­bondo, umiliato e scosso, e allo stesso tempo curiosamente ecci­tato... come sempre mi succede davanti all’ignoto.

Tanfo del suo corpo appena morto. Tanfo di sangue versato.

Non riuscivo a udire o percepire nient’altro. Entrai in una stanzetta che un tempo era stata una cucina; conteneva ancora le vestigia dei lavori domestici risalenti all’epoca dell’uomo defun­to che la vittima aveva amato. Sì, proprio ciò che volevo era sotto le tubature del lavandino, là dove lo ficcano sempre i mortali, una scatola di sacchi dell’immondizia di cellofan verde, perfetti per i suoi resti.

Improvvisamente, ricordai che aveva infilato la moglie uccisa, Terry, in un sacco del genere, avevo visto la scena, ne avevo senti­to l’odore, mentre mi cibavo di lui. Oh, al diavolo. Quindi lui mi aveva dato l’idea.

C’erano coltelli in giro, ma niente che potesse consentire un lavoretto chirurgico o artistico. Presi il più grosso, con la lama di acciaio al carbonio, entrai in salotto, senza esitare, e mi voltai a guardare la statua gigantesca.

Le lampade alogene erano ancora accese, brillanti ed efficaci fasci di luce nel guazzabuglio ricco di ombre.

Statua: angelo dalle zampe caprine.

Lestat, idiota.

La raggiunsi e mi ci fermai davanti, osservandone con fred­dezza i dettagli. Probabilmente non risaliva al XVII secolo. For­se era contemporanea, scolpita a mano, sì, ma sfoggiava l’assolu­ta perfezione contemporanea e il volto aveva la sublime espres­sione alla William Blake: un essere malvagio, accigliato, dalle zampe caprine e con gli occhi dei santi e dei peccatori del poeta e pittore inglese, colmi d’innocenza così come d’ira.

Tutt’a un tratto la desiderai, avrei voluto tenerla, portarla nel­le mie stanze di New Orleans come souvenir del momento in cui ero praticamente morto di paura ai suoi piedi. Mi si stagliava di­nanzi, fredda e solenne. E poi mi resi conto che tutte quelle reli­quie rischiavano di andare perdute, se non avessi preso dei prov­vedimenti. Non appena la sua morte fosse diventata di dominio pubblico, ognuno di quegli oggetti sarebbe stato confiscato; era questo il fulcro delle sue discussioni con Dora: la prospettiva che la sua vera ricchezza finisse in mani incuranti.

E Dora gli aveva voltato la schiena stretta e minuta e aveva pianto, un’orfanella consumata dal dolore, dall’orrore e dalla frustrazione più orribile, l’incapacità di consolare la persona a lei più cara.

Abbassai lo sguardo. Svettavo sopra il suo cadavere straziato. Lui continuava a sembrare appena morto, devastato, ucciso da un disgraziato. Capelli neri morbidi e arruffati, occhi semichiusi. Sulle maniche della camicia bianca spiccavano macchie di uno sgradevole rosa dovute al sangue colato dalle ferite che gli avevo inflitto involontariamente, stritolandolo. Il torace formava un angolo orrendo con le gambe. Gli avevo spezzato il collo e la spi­na dorsale.

Be’,lo avrei portato fuori di lì. Mi sarei sbarazzato di lui, e per molto tempo nessuno lo avrebbe saputo. Nessuno avrebbe sapu­to che era morto; e gli investigatori non avrebbero potuto infasti­dire Dora o renderla infelice. In seguito avrei pensato alle reli­quie, magari mettendole al sicuro per conto di Dora.

Gli presi i documenti dalle tasche. Tutti falsi, nessuno che re­casse il suo vero nome. Il suo vero nome era Roger. Lo sapevo sin dall’inizio, ma solo Dora lo chiamava così. Nei rapporti con chiunque altro lui aveva usato pseudonimi esotici, con bizzarri suoni medievali. Il passaporto era intestato a Frederick Wynken. Lo trovai davvero buffo. Frederick Wynken.

Radunai tutti i documenti e me li infilai nelle tasche con l’in­tenzione di distruggerli in un secondo tempo. Mi misi al lavoro col coltello. Gli tagliai le mani, meravigliandomi della loro delicatezza e di quanto le unghie fossero curate. Lui si era amato così tanto, e a ragione. Gli staccai la testa, più grazie alla forza bruta, spingendo il coltello attraverso tendini e ossa, che con vera e propria destrezza. Non mi presi il disturbo di chiudergli gli occhi. Lo sguardo dei morti conserva così poco fascino, davvero! Non imita nulla di vivente. La bocca era rilassata senza emozio­ne, e le guance lisce nella morte. Come al solito. Infilai la testa e le mani in due sacchi diversi, poi ripiegai il corpo, più o meno, e lo ficcai nel terzo sacco.

C’era sangue su tutto il tappeto che, me ne resi conto, era solo uno dei tanti, tantissimi, che coprivano il pavimento sovrappo­nendosi, come in un negozio da rigattiere, e questo era un vero peccato. Ma l’importante era che il corpo stesse per uscire dal­l’appartamento. La sua decomposizione non avrebbe richiamato mortali dal piano superiore o da quello inferiore. E, in assenza del cadavere, nessuno avrebbe mai potuto scoprire cosa ne era stato di lui... sicuramente la soluzione migliore per Dora, piutto­sto di dover vedere fotografie raffiguranti una scena così raccapricciante.