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«Non l’hai torturato come io ho torturato te. Sei pienamente consapevole di tutto ciò che hai fatto, vero? Cerca di capire! Non sono riuscito a intravedere il quadro generale, mentre ti se­guivo. T’immaginavo più intimamente perverso, del tutto assor­bito dal tuo stesso fascino romantico. Un maestro nell’arte dell’autoinganno», dissi in tono sommesso.

«Rappresentava una tortura ciò che mi hai fatto?» domandò. «Non ricordo di aver provato dolore, bensì solo rabbia perché stavo per morire. Comunque sia, uccisi l’uomo di Long Island per denaro. La cosa non significò niente per me. Non provai nemmeno sollievo, dopo, unicamente una vaga sensazione di forza, capisci, di soddisfazione; e volevo mettermi di nuovo alla prova, presto, e lo feci.»

«Ormai eri lanciatissimo.»

«Eccome. E con uno stile tutto mio, per di più. Si era sparsa la voce. Se l’impresa sembra impossibile, rivolgiti a Roger. Pote­vo introdurmi in un ospedale travestito da giovane medico, con una targhetta col nome appuntata sul camice e un blocco a molla in mano, e sparare alla vittima predestinata stesa nel suo letto prima che qualcuno si rendesse conto dell’accaduto. E lo feci davvero. Ma, sai, non mi arricchii con l’attività di sicario. Prima fu l’eroina, poi la cocaina, e nel campo della cocaina si stava tor­nando ad alcuni dei cowboy che avevo conosciuto all’inizio, che la portavano oltre confine nello stesso modo, seguendo le stesse rotte, usando gli stessi aerei! Conosci la storia. Oggi tutti la co­noscono. I primi contrabbandieri di droga erano piuttosto rozzi, quanto a metodi. Giocavano a guardie e ladri coi tizi del gover­no. Gli aerei superavano in velocità quelli governativi e, talvolta, quando atterravano erano a tal punto strapieni di cocaina che il pilota non riusciva a districarsi e a uscire dall’abitacolo, e noi correvamo a prendere la roba, la caricavamo sui veicoli e taglia­vamo la corda.»

«Ne ho sentito parlare.»

«Adesso ci sono veri geni nel settore, gente che sa usare alla perfezione telefoni cellulari e computer, che conosce tecniche di riciclaggio del denaro sporco quali nessuno può individuare. Ma a quei tempi come andavano le cose? Ero io il genio degli spac­ciatori! A volte l’intera faccenda era scomoda come spostare mo­bili, te lo dico io. E io entrai nel settore, organizzando, sceglien­do i miei confidenti e i miei galoppini, capisci, per varcare le frontiere; e persino prima che la cocaina venisse spacciata per le strade, stavo facendo affari d’oro a New York e a L.A. coi ricchi, sai, il genere di clienti cui consegni personalmente la merce. Non dovevano nemmeno lasciare le loro principesche ville. Tu ricevi la telefonata; vai da loro. La tua roba è pura e loro ti apprezzano. Ma dovevo passare ad altro. Non volevo dipendere da quell’atti­vità. Ero troppo furbo. Conclusi alcuni affari in campo immobi­liare che rappresentarono veri e propri colpi di genio; avevo il vantaggio di disporre di contanti, e sai che all’epoca l’inflazione era galoppante. Guadagnai una montagna di soldi.»

«Ma come s’inserì Terry in tutto questo? E Dora?»

«Pura coincidenza. Chissà. Tornai a New Orleans per vedere mia madre, scopai Terry e la misi incinta. Fottuto idiota. Avevo ventidue anni, e ormai mia madre era davvero moribonda. Mi disse: ‘Roger, ti prego, torna a casa’. Il suo stupido boyfriend con la faccia piena di crepe era morto. Era sola. Le avevo sempre mandato un sacco di soldi. Adesso la pensione era diventata la sua residenza privata, lei aveva due cameriere e un autista che la portava in giro per la città con una Cadillac ogni volta che lo de­siderava. Si era divertita molto, senza mai fare domande sul mio denaro, e, naturalmente, io continuavo a collezionare i libri di Wynken. A quel punto ne possedevo altri due e avevo già il mio deposito di tesori a New York, ma di questo possiamo parlare in seguito. Per il momento lascia Wynken in un angolino della tua mente. Mia madre non mi aveva mai chiesto davvero niente. Adesso aveva tutta per sé la grande camera al piano di sopra. Mi raccontò che parlava con tutti gli altri che se n’erano andati: il suo povero vecchio fratello defunto, Mickey; la sorella morta, Alice; e sua madre, la cameriera irlandese — la si potrebbe defini­re la capostipite della nostra famiglia — che aveva ereditato la ca­sa dalla nobile pazza che ci viveva. Mia madre parlava parecchio anche col piccolo Richard, un fratello morto di tetano a soli quattro anni. Il piccolo Richard. Diceva che il bambino passeg­giava con lei, spiegandole che era arrivato il momento di rag­giungerlo. Voleva che io tornassi a casa. Mi voleva in quella stan­za. Lo sapevo e capivo benissimo. Lei aveva assistito i pensionan­ti in punto di morte. Io ne avevo assistiti altri, oltre al vecchio ca­pitano. Così tornai a casa. Nessuno sapeva dove fossi diretto, quale fosse il mio vero nome o da dove venissi. Quindi per me fu facile sgattaiolare via da New York. Raggiunsi la casa di St. Char­les Avenue e rimasi seduto con lei nella stanza da ammalata, te­nendole accanto al viso la bacinella per il vomito, asciugandole la saliva e cercando di metterla sulla padella quando l’agenzia non poteva mandarci un’infermiera. Avevamo qualcuno in grado di aiutarci, sì, ma lei non voleva essere aiutata, capisci. Non voleva la ragazza di colore, come la chiamava, o l’orribile infermiera dell’agenzia. E io feci una scoperta sorprendente: quelle incom­benze non mi disgustavano poi tanto. Lavai innumerevoli len­zuola. Naturalmente, c’era una lavatrice in cui infilarle, ma conti­nuavo a cambiarle per lei. Non mi dispiaceva. Forse non sono mai stato normale. Comunque sia, feci solo ciò che andava fatto. Sciacquai quella padella un migliaio di volte, la asciugavo, la co­spargevo di talco e la posavo accanto al letto. Dopotutto, non esiste tanfo che duri in eterno.»

«Non su questa terra, almeno», mormorai. Ma lui non mi sentì, grazie a Dio.

«Andò avanti così per due settimane. Lei non voleva andare al Mercy Hospital. Ingaggiai delle infermiere per una copertura ventiquattr’ore su ventiquattro, tanto per avere un sostegno, sai, in modo che potessero misurarle pressione e battito cardiaco quando io mi spaventavo. Le facevo ascoltare della musica. Tutte le cose di prammatica: recitavo il rosario ad alta voce insieme con lei; la solita scena da letto di morte. Dalle due alle quattro del pomeriggio lei tollerava la presenza dei visitatori. Venivano dei vecchi cugini. ‘Dov’è Roger?’ chiedevano e io me ne stavo nascosto.»

«Non eri dilaniato dalle sue sofferenze.»

«Non ne andavo certo pazzo, questo posso dirlo. Il tumore le si era propagato in tutto il corpo e nessuna somma di denaro avrebbe potuto salvarla. Volevo che si sbrigasse e non sopporta­vo di assistere alla sua agonia, ma nel mio carattere c’è sempre stato un intimo lato tiranno che dice: ‘fa’ quello che devi fare’. E rimasi in quella stanza, senza dormire, un giorno dopo l’altro, e tutte le notti finché lei non morì. Parlava spesso coi fantasmi, ma io non li vedevo né li sentivo. Mi limitavo a ripetere senza sosta: ‘Piccolo Richard, vieni a prenderla. Zio Mickey, se non riesce a tornare da sola, vieni a prenderla’. Ma prima della fine arrivò Terry, un’infermiera praticante, come le chiamavano a quei tempi, che doveva fungere da sostituta quando non riuscivamo a trovare infermiere diplomate, che erano molto richieste. Terry: un metro e settanta, bionda, il bocconcino più dozzinale e appetitoso su cui io abbia mai posato gli occhi. Cerca di capire. Fu uno di quei casi in cui tutto s’incastra alla perfezione. La ragazza rap­presentava uno splendido esempio di volgarità.»