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«Posso immaginare la scena.»

«Gettai i due cadaveri nelle paludi. Era passato parecchio tempo dall’ultima volta in cui mi ero occupato di persona di una faccenda simile, ma non aveva importanza, fu tutto piuttosto fa­cile. Il furgoncino dell’elettricista era nel garage, perciò infilai i due corpi in sacchi di plastica e li caricai sul retro del furgone. Li portai via, lungo la Jefferson Highway, non so nemmeno dove li lasciai. No, aspetta, forse passai da Chef Menteur. Un posto im­precisato vicino a uno dei vecchi forti sul fiume Rigules. Affon­darono nella melma.»

«Capisco benissimo. Anch’io sono stato gettato nelle palu­di.»

Lui era troppo eccitato per dare retta ai miei borbottii. Conti­nuò a raccontare. «Poi tornai a prendere Dora. La trovai seduta sui gradini, i gomiti sulle ginocchia, a chiedersi come mai non ci fosse nessuno in casa; la porta era chiusa a chiave, quindi non era potuta entrare e, non appena mi vide, cominciò a urlare: ‘Papà! Sapevo che saresti venuto. Lo sapevo!’ Preferii non correre il ri­schio di entrare a prendere i suoi vestiti. Non volevo che vedesse il sangue. Salii con lei sul furgoncino dell’elettricista e uscimmo da New Orleans, abbandonando infine il veicolo nientemeno che a Seattle, nello Stato di Washington. Questa fu la mia odissea attraverso il Paese, insieme con Dora. Tutti quei chilometri... Pu­ra follia, noi due soli che parlavamo e parlavamo. Probabilmente stavo cercando d’insegnarle tutto quello che avevo imparato. Niente di malvagio e autodistruttivo, niente che potesse richia­mare l’oscurità accanto a lei, solo le cose positive, ciò che avevo appreso sulla virtù e l’onestà, su che cosa corrompe la gente, e su cosa invece è prezioso.

«‘Non puoi limitarti a non fare nulla in questa vita, Dora’,le ripetevo, ‘non puoi semplicemente lasciare il mondo così come l’hai trovato.’ Le raccontai persino che da giovane avrei voluto diventare un leader religioso e che il mio attuale lavoro consiste­va nel collezionare cose belle, oggetti sacri provenienti da tutta Europa e dall’Oriente. Ne organizzavo la compravendita, tenen­do per me i pochi pezzi che desideravo. La spinsi a credere che questa fosse l’attività che mi arricchiva e a quel tempo, strana­mente, era in parte vero.»

«Lei però sapeva che avevi ucciso Terry.»

«No. Ti sei fatto un’idea sbagliata, in proposito. Tutte quelle immagini stavano vorticando nella mia mente. Fu ciò che provai mentre mi succhiavi il sangue. In realtà le cose non andarono co­sì. Lei sapeva che mi ero sbarazzato di Terry — o che l’avevo libe­rata da Terry —, e che ormai poteva restare sempre col papà e vo­lare via con lui quando il papà volava via. È molto diverso dal sa­pere che il papà ha ucciso la mamma. Questo lei lo ignora. Una volta, quando aveva dodici anni, mi telefonò singhiozzando e disse: ‘Papà, puoi dirmi per favore dov’è la mamma, dove sono andati lei e quell’uomo quando sono partiti per la Florida?’ Riu­scii a stare al gioco, spiegando che avevo preferito non dirle che Terry era morta. Sia ringraziato Dio per il telefono. Me la cavo egregiamente, al telefono. Mi piace. È come parlare alla radio. Ma torniamo a Dora a sei anni. Il papà la portò a New York e prese una suite al Plaza. Da quel momento in poi Dora ebbe tut­to ciò che il papà poteva comprare.»

«Piangeva per Terry persino allora?»

«Sì. E probabilmente fu l’unica persona che lo fece mai. Prima del matrimonio, la madre di Terry mi aveva detto che sua fi­glia era una puttana. Loro due si odiavano. Il padre di Terry era stato un poliziotto, un tipo a posto, ma nemmeno a lui piaceva la figlia. Terry non era una persona simpatica, era crudele per natu­ra; non sarebbe stato molto piacevole neppure incontrarla casualmente per strada, figuriamoci conoscerla o aver bisogno di lei o addirittura doverla tenere con sé. La sua famiglia pensava che lei fosse fuggita in Florida lasciandomi Dora. I due vecchi, i genitori, morirono senza scoprire altro. Ci sono dei cugini, che ancora credono che sia scappata; ma non sanno chi io sia in realtà; è tutto piuttosto difficile da spiegare. Naturalmente, or­mai potrebbero aver letto gli articoli sui giornali e le riviste. Non ne sono sicuro, non ha importanza. Dora piangeva per sua ma­dre, sì. Ma, dopo la grossa bugia che le raccontai quando aveva dodici anni, non fece più nessuna domanda.

«Comunque devo dire che la devozione di Terry nei confron­ti di Dora era stata totale, come quella di ogni madre apparte­nente alla specie dei mammiferi! Istintiva, protettiva, ma priva di passionalità. Si preoccupava che Dora avesse un’alimentazione equilibrata; le faceva indossare bei vestiti, l’accompagnava a scuola di danza e restava seduta là a spettegolare con le altre ma­dri. Era orgogliosa di lei. Però le parlava poco. Credo che potes­sero trascorrere giorni e giorni senza che i loro sguardi s’incro­ciassero. Era una tipica relazione da mammiferi. E per Terry pro­babilmente funzionava tutto così.»

«È davvero strano che tu ti sia legato a una persona del gene­re, sai.»

«No, non è strano. Fu il destino. Abbiamo generato Dora. Terry le trasmise la voce e la bellezza. E in Dora c’è qualcosa di Terry che somiglia alla durezza, ma questo è un termine troppo poco gentile. Dora è un misto di noi due, in realtà, un miscuglio ottimale.»

«Be’,anche tu le hai trasmesso la tua bellezza.»

«Sì, ma quando i geni si fusero, successe qualcosa di molto più interessante. Hai visto mia figlia: è fotogenica e, sotto il bril­lante entusiasmo che le ho dato io, c’è la stabilità di Terry. Con­verte la gente attraverso le onde radio. ‘E qual è il vero messaggio di Cristo?’ chiede, fissando la telecamera. ‘Che Cristo è in ogni sconosciuto che incontrate, nei poveri, negli affamati, negli am­malati, nei vicini della porta accanto!’ E il pubblico le crede.»

«L’ho ammirata in TV. L’ho vista. Potrebbe davvero diventa­re la migliore», gli dissi.

Lui sospirò, poi riprese il racconto. «La mandai a scuola. Al­l’epoca guadagnavo davvero un sacco di soldi. Dovevo mettere parecchi chilometri tra me e mia figlia. Le feci cambiare tre scuo­le in tutto prima del diploma; per Dora fu dura, ma non mi fece mai domande su simili manovre o sulla segretezza che ammanta­va i nostri incontri. Le feci credere che rischiavo in continuazio­ne di dover correre a Firenze per impedire che un affresco venis­se distrutto da qualche idiota o a Roma per esplorare una cata­comba appena scoperta. Quando cominciò a interessarsi seria­mente alla religione, giudicai la cosa in modo positivo. Pensai che la mia sempre più vasta collezione di statue e libri l’avesse ispirata. E quando, a diciott’anni, mi disse di essere stata accetta­ta a Harvard e di voler studiare religioni comparate, lo trovai di­vertente. Feci la solita considerazione sessista: ‘studia ciò che vuoi e sposa un uomo ricco’. E lascia che ti mostri l’ultima icona o statua che ho comprato. Tuttavia il fervore e la predisposizione alla teologia di Dora si stavano sviluppando molto più di qualsiasi cosa io avessi mai sperimentato. A diciannove anni andò in Terra Santa e ci tornò altre due volte, prima della laurea. Tra­scorse i due anni seguenti studiando le religioni del mondo. Poi m’illustrò in modo dettagliato la sua idea per il programma tele­visivo: voleva parlare alla gente. La TV via cavo aveva dato vita a canali religiosi di ogni tipo. Potevi sintonizzarti su questo mini­stro protestante o su quel prete cattolico.

«‘Dici sul serio?’ le chiesi. Ignoravo che credeva davvero a tutto ciò; era decisissima a ispirarsi fedelmente a ideali che io stesso non avevo mai capito sino in fondo ma che, chissà come, le avevo trasmesso.

«‘Papà, fa’ in modo che io possa apparire in televisione per un’ora tre volte alla settimana e abbia dei soldi da usare come meglio credo, e vedrai cosa succede’,mi rispose. Cominciò a parlare di questioni etiche di ogni genere, di come potevamo salvare la nostra anima nel mondo odierno. Immaginava brevi con­ferenze o sermoni, inframmezzati da canti e balli estatici. Prendi la questione dell’aborto: lei fa appassionati discorsi perfettamen­te logici, dimostrando che entrambe le parti hanno ragione! Spiega che ogni vita è sacra, eppure una donna deve godere del completo controllo sul proprio corpo.»