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«I mistici non pensano mai che sia un’esperienza del gene­re.»

«Certo che no.»

«Dora è una mistica? La definiresti tale?»

«Non lo sai da solo? L’hai seguita, l’hai osservata. No, Dora non ha visto il volto di Dio né sentito la sua voce e non mentireb­be mai al riguardo, se è questo che intendi. Ma sta cercando. Sta cercando il momento, il miracolo, la rivelazione!»

«L’arrivo dell’angelo.»

«Sì, precisamente.»

All’improvviso restammo in silenzio. Forse lui stava rifletten­do sulla sua proposta iniziale; io stavo ripensando a quando mi aveva sollecitato a inscenare un miracolo, proprio io, l’angelo malvagio che un giorno aveva condotto alla pazzia una suora cat­tolica, l’aveva portata al punto di sanguinare dalle stigmate su mani e piedi.

Tutt’a un tratto lui decise di continuare e io ne fui sollevato.

«Ho reso la mia vita abbastanza ricca per poter smettere di preoccuparmi di cambiare il mondo, se mai ho davvero pensato di farlo; mi sono creato una vita tutta mia, capisci, un mondo a parte, autonomo. Ma lei ha davvero spalancato la propria anima in modo sofisticato davanti a... a qualcosa. La mia anima è mor­ta», disse.

«Non sembrerebbe», ribattei. Il pensiero che prima o poi sa­rebbe svanito, che fosse costretto a farlo, cominciava a sembrar­mi intollerabile e molto più spaventoso di quanto non fosse mai stata la sua presenza iniziale.

«Torniamo alle cose essenziali. Comincio a essere un po’ in ansia...» dichiarò.

«Perché?»

«Non perdere la testa, limitati ad ascoltarmi. Ho messo da parte per Dora del denaro non riconducibile a me. Inoltre, il go­verno non può toccarlo, non mi ha mai incriminato formalmente e men che meno condannato, sei stato tu a impedirlo. I documenti si trovano nell’appartamento, in raccoglitori di pelle nera, in uno schedario; mescolati a ricevute relative a dipinti e statue di ogni genere. E tu devi mettere tutto al sicuro da qualche parte, per Dora. Il lavoro di tutta una vita, la mia eredità. L’affido a te, per lei. Puoi farlo, vero? Senti, non c’è nessuna fretta, ti sei sba­razzato di me in modo piuttosto scaltro.»

«Lo so. E adesso mi stai chiedendo di fungere da angelo cu­stode, di far sì che Dora riceva quest’eredità senza essere conta­minata...»

«Sì, amico mio, è proprio questo che ti sto implorando di fa­re. Puoi riuscirci! E non dimenticare il mio Wynken! Se lei non vuole prendere quei libri, tienili tu!» Mi toccò il petto con la ma­no. Sentii il lieve bussare sulla porta del cuore.

Roger continuò. «Quando il mio nome spunta dai documen­ti, presumendo che passi dai file dell’FBI alle agenzie di stampa, consegna il denaro a Dora. I soldi possono ancora contribuire a creare la sua chiesa. Lei ha una personalità magnetica. Può fare tutto da sola, se dispone del denaro! Mi segui? Può farlo così co­me l’ha fatto san Francesco o san Paolo o Gesù. Se non fosse per la sua teologia, Dora sarebbe diventata una celebrità carismatica molto tempo fa, perché ha tutte le doti necessarie. Solo, pensa troppo: è la sua teologia a renderla diversa da tutti gli altri.»

Respirò a fondo. Stava parlando molto rapidamente e io co­minciavo a tremare. Riuscivo a percepire la sua paura come una fioca emanazione. Paura di cosa?

«Ecco», continuò. «Voglio citarti una frase. Dora me l’ha ri­ferita ieri sera. Avevamo appena letto un testo di Bryan Appleyard, un giornalista che collabora coi quotidiani inglesi, ne hai sentito parlare? Ha scritto un libro intitolato Capire il presen­te. Ho la copia che mi ha dato Dora. E in questo libro lui dice co­se in cui Dora crede... per esempio che siamo ‘spiritualmente im­poveriti’.»

«Sono d’accordo.»

«Ma mi riferisco a qualcos’altro, qualcosa che riguarda il no­stro dilemma, il fatto che tu possa inventare delle teologie che però, per funzionare, devono scaturire da un punto più profon­do all’interno della persona... So come l’ha definito lei, usando le parole di Appleyard, ‘una totalità di esperienza umana’.» S’in­terruppe, sembrava distratto.

Volevo disperatamente rassicurarlo dimostrandogli che capi­vo benissimo, perciò mi affrettai a dire: «Sì, lei sta cercando pro­prio questo, lo sta corteggiando, si sta aprendo a quest’esperien­za». All’improvviso mi resi conto che mi stavo aggrappando a lui con la stessa intensità con cui lui si aggrappava a me.

Roger fissava il vuoto.

Fui invaso da una tristezza così orrenda che non riuscivo a parlare. Avevo ucciso quest’uomo! Perché lo avevo fatto? Insomma, sapevo che era stato un tipo interessante e malvagio, ma, Cristo, come avevo potuto... E se fosse rimasto con me così com’era? E se avesse potuto diventare mio amico esattamente così com’era? Oh, questo era troppo puerile, egoista e avido! Stavamo parlando di Dora, di teologia. Naturalmente, capivo cosa intendeva Appleyard in Capire il presente; m’immaginai il li­bro. Sarei tornato nell’appartamento a prenderlo. Archiviai l’im­pegno nella mia memoria sovrannaturale: leggerlo subito.

Lui non si era mosso né aveva aperto bocca.

«Senti, cos’è che ti spaventa?» chiesi. «Non andartene!» Mi aggrappai a lui, disperato, inerme e quasi in lacrime, pensando che lo avevo ucciso, che gli avevo rubato la vita, e adesso l’unica cosa che desideravo era trattenere il suo spirito.

Lui non rispose, sembrava spaventato.

Non ero il mostro incallito che pensavo di essere. Non ri­schiavo di assuefarmi alla sofferenza umana. Ero in preda a una dannata, recalcitrante empatia! «Roger? Guardami. Continua a parlare.»

Lui si limitò a mormorare che forse Dora avrebbe trovato quello che lui non era riuscito a trovare.

«Cosa?» domandai.

«Teofania», sussurrò.

Oh, quell’elegante parola. La parola usata da David. L’avevo sentita io stesso solo poche ore prima. E adesso usciva dalle lab­bra di Roger.

«Senti, credo che stiano venendo a prendermi», annunciò improvvisamente e sgranò gli occhi. Non sembrava più tanto spaventato quanto perplesso. Stava ascoltando qualcosa. An­ch’io lo sentivo. «Ricordati della mia morte», aggiunse tutt’a un tratto, come se ci avesse appena pensato molto chiaramente. «Raccontale come sono morto. Convincila che la mia morte ha purificato il denaro! Cerca di capire. È quello lo scopo! Ho pa­gato con la morte e il denaro non è più sporco, ormai. I libri di Wynken, tutti e dodici, non sono più sporchi. Cerca di rendere meno squallida l’intera faccenda. Ho riscattato tutto col mio san­gue. Capisci, Lestat, usa il tuo eloquio brillante. Diglielo!»

Quei passi.

Il ritmo distinto di qualcosa che camminava, camminava len­tamente... E il fioco mormorio di voci, i canti, il chiacchierio, co­minciavo ad avere le vertigini. Stavo per cadere. Mi aggrappai a lui e al bancone.

«Roger!» urlai. Di certo qualcuno mi sentì, lì nel bar.

Roger mi stava guardando placidamente, non sapevo nemme­no se il suo viso avrebbe più cambiato espressione; era sconcer­tato, forse addirittura sbalordito, ma restava fisso.

Vidi le ali innalzarsi sopra di me, sopra di lui. Vidi l’immensa oscurità che tutto distrugge schizzare verso l’alto come scaturita da una crepa vulcanica e dietro di essa levarsi la luce, una luce accecante, magnifica.

So che gridai: «Roger!»

Il rumore era assordante: le voci, i canti, e la figura che diven­tava sempre più grande.

«Non portarlo via. È colpa mia.» Balzai in piedi per affron­tarlo, furibondo; lo avrei fatto a pezzi, se necessario, affinchè la­sciasse andare Roger! Ma non riuscivo a vederlo chiaramente. Non sapevo nemmeno dove mi trovavo. E la Cosa si avvicinò vorticando, di nuovo simile a fumo denso, potente e inarrestabi­le; e, in mezzo a tutto ciò, incombente su Roger che via via svani­va, e in movimento verso di me, il volto, il volto della statua di granito per un attimo, l’unica parte visibile, i suoi occhi...