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«Lascialo andare!»

Non c’era nessun bar, nessun Village, nessuna città, nessun mondo. Soltanto tutti loro! E forse i canti non erano altro che il suono di un bicchiere che andava in frantumi.

Poi oscurità. Immobilità. Silenzio.

O almeno, mi sembrò di essere rimasto privo di sensi, per un certo periodo, in un luogo tranquillo.

Mi risvegliai fuori, in strada.

Accanto a me, c’era il barman, fermo, scosso da brividi, che con voce seccata e nasale mi chiedeva: «Tutto bene, amico?» Aveva della neve sulle spalle, sulle spalle nere del panciotto e sul­le maniche bianche.

Annuii e mi alzai, soltanto perché se ne andasse. La mia cra­vatta era ancora a posto, il mio cappotto abbottonato e le mie mani pulite. Avevo della neve sul cappotto.

La neve cadeva molto dolcemente tutt’intorno a me. Una ne­ve meravigliosa.

Varcai di nuovo la porta girevole, tornando nell’atrio rivestito di piastrelle e mi fermai sulla soglia del bar. Riuscivo a vedere il punto in cui Roger e io avevamo parlato, a vedere il suo bicchiere rimasto lì. Per il resto, l’atmosfera era immutata. Il barman, con aria annoiata, stava parlando con qualcuno. Non aveva visto niente, se non probabilmente il sottoscritto alzarsi di scatto e correre in strada con passo malfermo.

Ogni fibra del mio essere mi suggeriva di scappare. Ma dove vuoi fuggire? Vuoi spiccare il volo? Impossibile, ti raggiungerà in un attimo. Tieni i piedi sulla terra fredda.

Hai preso Roger! E per questo che mi hai seguito? Chi sei?

Il barman sollevò lo sguardo per colmare la vuota e tetra di­stanza che ci separava. Dovevo aver detto o fatto qualcosa. No, stavo semplicemente singhiozzando. Un uomo che piangeva sul­la soglia, come uno stupido. E quando si tratta di quest’uomo, per così dire, ciò significa lacrime di sangue. Esci in fretta.

Mi voltai e tornai fuori sotto la neve. Presto sarebbe arrivato il mattino. Non ero costretto a passeggiare in quel freddo penoso e crudele finché il cielo non si rischiarava, giusto? Perché non cer­care subito una bara per andare a dormire?

«Roger!» stavo gridando, asciugandomi le lacrime con la ma­nica. «Che cosa sei, dannazione?» Mi fermai e urlai, l’eco della mia voce che rimbalzava sugli edifici. «Dannazione!» All’im­provviso, in un lampo, mi fu di nuovo addosso: sentii tutte quelle voci mescolate e lottai contro di lui. Il volto. Ha un volto. Una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile. Non lasciarti so­praffare dalle vertigini, non cercare di ricordare.

Qualcuno, in uno dei palazzi, aprì una finestra e mi gridò di andarmene: «Smettila di urlare».

Non tentare di ricostruire l’accaduto, altrimenti perderai i sensi.

A un tratto, immaginai Dora e temetti di stramazzare a terra, lì dov’ero, scosso da brividi, impotente e balbettando assurdità a chiunque si avvicinasse per aiutarmi.

Era grave, era il peggio del peggio, era cosmicamente orren­do, tutto qui!

E, in nome di Dio, cosa aveva significato l’espressione sul viso di Roger in quell’ultimo istante? Era stata davvero un’espressio­ne? Si trattava di pace o calma o comprensione, o soltanto di uno spirito che perdeva la sua vitalità, uno spirito che si separava dal proprio spirito?

Ah! Avevo urlato di nuovo; me ne resi conto. Parecchi mortali intorno a me mi stavano intimando di tacere.

Camminai e camminai.

Ero solo. Piansi. Non c’era nessuno nella strada deserta che potesse sentirmi.

Avanzai a fatica, quasi piegato in due, singhiozzando. Non notai anima viva che mi vedesse o mi sentisse, per fermarsi e ba­dare a me. Volevo rivivere tutto mentalmente, ma ero terrorizza­to all’idea che la cosa potesse colpirmi facendomi cadere a terra, alla sua mercé. E Roger, Roger... Oh, Dio, nel mio mostruoso egoismo volevo andare da Dora e inginocchiarmi. Ecco ciò che ho fatto, io ho ucciso, ho...

Nei paraggi del centro città. Credo. Pellicce in una vetrina. La neve mi stava toccando le palpebre con estrema dolcezza. Mi tolsi la sciarpa e mi asciugai il viso per togliere il sangue delle lacrime.

E infine entrai in un piccolo albergo vivacemente illuminato. Pagai la stanza in contanti, dando una mancia extra per non esse­re disturbato per ventiquattro ore; salii al piano di sopra, feci scorrere il chiavistello della porta, tirai le tende, spensi il fastidio­so e soffocante riscaldamento, m’infilai a letto e mi addormentai.

L’ultimo bizzarro pensiero che mi attraversò la mente prima che piombassi nel torpore mortale — mancavano ancora molte ore all’alba e c’era un sacco di tempo per sognare — fu che David si sarebbe arrabbiato per tutto questo, in qualche modo, mentre Dora, Dora forse, avrebbe potuto credere e capire...

Devo aver dormito per qualche ora almeno. Sentivo i rumori della notte all’esterno. Quando mi svegliai, il cielo stava rischia­rando. La notte era quasi terminata. Di lì a breve sarebbe giunto l’oblio. Ne fui felice perché era troppo tardi per pensare. Torna al profondo sonno vampiresco. Morto con tutti gli altri Non Morti ovunque essi siano, al riparo dalla luce imminente.

Una voce mi riscosse e molto distintamente mi disse: «Non sarà così semplice».

Mi alzai con un unico movimento, rovesciando il letto, guar­dando nella direzione da cui era arrivata la voce. L’angusta stan­za d’albergo sembrava una trappola pacchiana.

Nell’angolo stava ritto un uomo, un uomo normale; non particolarmente alto o basso, né bello come Roger o appariscente come me, nemmeno tanto giovane, né tanto vecchio, semplice­mente un uomo, dall’aspetto piuttosto gradevole, che teneva le braccia conserte e le caviglie incrociate.

Il sole si era appena levato sugli edifici. Il fuoco colpì le fine­stre e, trovando un varco fra le tende tirate, penetrò nella stanza. Rimasi accecato. Non riuscivo a vedere niente. Mi abbassai verso il pavimento, solo leggermente ustionato e ferito, il letto che ca­deva sopra di me, proteggendomi.

Nient’altro. Chiunque o qualunque cosa fosse quell’uomo, io ero impotente una volta che il sole appariva nel cielo, indipen­dentemente da quanto fosse bianca e fitta la coltre della mattina­ta invernale.

5

«Benissimo», esordì David. «Siediti. Smettila di passeggiare avanti e indietro. Voglio che tu mi ripeta ogni dettaglio. Se prima di farlo hai bisogno di nutrirti, possiamo uscire e...»

«Te l’ho già detto! Ormai ho superato la cosa. Non ho biso­gno di nutrirmi. Non ho bisogno di sangue. Lo desidero. Lo adoro. Ma adesso non ne voglio! Ieri notte ho banchettato con Roger, come un demone ingordo. Smettila di parlare di sangue.»

«Vuoi sederti al tuo posto, lì al tavolo?»

Di fronte a lui, intendeva dire. Io ero in piedi accanto alla pa­rete di vetro e guardavo il tetto sottostante della chiesa di San Patrizio.

David aveva scelto una sistemazione perfetta all’Olympic Tower, le nostre stanze si affacciavano direttamente sulle guglie. Un appartamento immenso, di gran lunga superiore alle nostre necessità, ma che rappresentava comunque un domicilio ideale, perché l’intimità con la cattedrale mi sembrava indispensabile. Riuscivo a vedere la pianta cruciforme del tetto, le alte e affilate torri campanarie. Davano quasi l’impressione di poterti impala­re, tanto sembravano aguzze e svettanti. E il cielo, proprio come la notte prima, era un fioco, silenzioso turbinare di neve.

Sospirai. «Senti, mi spiace, ma non voglio ripetere tutto da capo. Non posso. O accetti la storia così come te l’ho raccontata oppure io... io... perdo il lume della ragione.»

Lui rimase tranquillamente seduto al tavolo. Avevamo preso l’appartamento «chiavi in mano», cioè ammobiliato. Sfoggiava lo stile di sobria eleganza tipico del mondo aziendale: ovunque mogano, pelle e varie tonalità di beige, marrone chiaro e oro che non potevano offendere nessuno, presumibilmente. E fiori. Da­vid si era occupato dei fiori, così potevamo godere del profumo dei fiori.