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L’idea di dover avanzare, mettendo un piede innanzi all’altro, entrare nel salotto e osservare la statua di granito all’improvviso fu più di quanto potessi sopportare.

«Non è qui», annunciò David. Non mi aveva letto nel pensie­ro, stava solo facendo una constatazione. Era fermo in salotto, una quindicina di metri più in là, e mi fissava, le lampade alogene che proiettavano su di lui solo una parte della loro luce mirata, e ripetè: «Non c’è nessuna statua di granito nero in questa stan­za».

Sospirai. «Andrò all’inferno», sussurrai. Vedevo David in modo chiaro, ma nessun mortale ci sarebbe riuscito. La sua im­magine era troppo ombreggiata. Sembrava alto e forte, in piedi lì, dando la schiena alla fioca luce che entrava dalle finestre, le alogene che facevano brillare i suoi bottoni d’ottone.

«Il sangue?»

«Sì, il sangue, e i tuoi occhiali. I tuoi occhiali viola. Una prova coi fiocchi.»

«Prova di cosa?»

Era troppo stupido da parte mia restare accanto alla porta po­steriore a parlargli da lontano. Percorsi il corridoio come se mi stessi avviando allegramente verso il patibolo ed entrai nella stanza.

C’era solo uno spazio vuoto là dove avevo visto la statua, e non ero nemmeno sicuro che fosse abbastanza ampio. Disordi­ne. Santi di gesso. Icone, alcune così antiche e fragili da essere state messe sotto vetro. La sera prima non ne avevo notate così tante, illuminate sulle pareti dai fasci di luce delle lampade orientate.

«Incredibile!» sussurrò David.

«Sapevo che ti sarebbe piaciuto», risposi in tono cupo. Sa­rebbe piaciuto anche a me, se non fossi stato così scosso.

Lui stava studiando gli oggetti, lo sguardo che saettava da un’icona all’altra, per poi esaminare i santi. «Oggetti assoluta­mente splendidi. È... è una collezione straordinaria. Non sai cosa sia tutta questa roba, vero?»

«Be’,più o meno. Non sono completamente ignorante in fat­to di arte», replicai.

«La serie di quadri sul muro», disse e indicò una lunga fila di icone, le più fragili.

«Quelle? Non saprei.»

«Il velo di Veronica», spiegò. «Queste sono antiche copie del famoso drappo — il velo stesso — che presumibilmente scomparve dalla storia secoli fa. Forse durante la quarta crociata. Questa è russa, perfetta. Questa invece? Italiana. E guarda lì, sul pavimen­to: quei quadri impilati sono le Stazioni della Croce.»

«Era ossessionato dal desiderio di trovare reliquie per Dora. Inoltre, adorava quegli oggetti. Quello, il velo di Veronica russo, lo aveva appena portato qui a New York per Dora. Ieri sera han­no litigato in proposito, perché lei si è rifiutata di prenderlo.»

Era davvero splendido il modo in cui lui aveva cercato di de­scriverlo alla figlia. Dio, avevo l’impressione che ci fossimo cono­sciuti da giovani e avessimo parlato di tutti quegli oggetti, e per me ogni superficie dell’appartamento era rivestita dal suo pecu­liare apprezzamento e corso di pensieri.

Le Stazioni della Croce. Ovviamente, conoscevo la pratica re­ligiosa; quale bambino cattolico non la conosce? Da piccolo, io e gli altri seguivamo le quattordici stazioni della passione di Cristo e del suo viaggio fino al Calvario attraversando la chiesa buia, fermandoci davanti a ognuna, con un ginocchio piegato, per re­citare le debite preghiere. Oppure il prete e i suoi chierichetti avanzavano in processione, mentre la congregazione recitava con loro la riflessione sulle sofferenze di Cristo in ogni punto. Veronica non era forse apparsa nella sesta stazione per detergere il viso di Gesù col proprio velo?

David passava da un oggetto all’altro. «E questo crocifisso! È davvero antico, potrebbe fare sensazione.»

«Ma non potresti dire altrettanto di ciascuno di essi?»

«Oh, sì, ma non sto parlando di Dora e della sua religione o di qualunque cosa si tratti, sto semplicemente dicendo che que­ste sono splendide opere d’arte. No, hai ragione, non possiamo lasciare tutto ciò in balia del fato, è inammissibile. Ecco, questa statuina potrebbe risalire al IX secolo, essere celtica e avere un grande valore. E questa... questa probabilmente viene dal Crem­lino.» S’interruppe, affascinato da un’icona raffigurante una Madonna con Bambino. Nettamente stilizzata, come tutte, e di carattere molto familiare perché il Cristo bambino stava perden­do un sandalo mentre si aggrappava alla madre, si vedevano al­cuni angeli che lo tormentavano con piccoli simboli della sua fu­tura passione e la testa della Madonna era piegata affettuosa­mente verso il figlio. Un’aureola si sovrapponeva all’altra. Gesù Bambino che fuggiva di fronte al futuro, rifugiandosi nelle pro­tettive braccia materne.

«Conosci il principio fondamentale di un’icona, vero?» chie­se David.

«Ispirata da Dio.»

«Non creata da mani umane, si presume che venga impressa direttamente da Dio sul materiale di fondo», confermò lui.

«Così come il volto di Gesù venne impresso sul velo di Vero­nica, vuoi dire?»

«Precisamente. Tutte le icone erano opera di Dio. Una rivela­zione in forma materiale. E talvolta si poteva ricavare una nuova icona da un’altra semplicemente premendo un nuovo tessuto so­pra l’originale, operando così un magico trasferimento.»

«Capisco. Si pensava che non l’avesse dipinta nessuno.»

«Infatti. Guarda, questa è una reliquia della Vera Croce con la cornice tempestata di pietre preziose, e questo, questo libro... Mio Dio, non può essere il... No, questo è un famoso Libro d’O­re che andò perduto a Berlino durante la seconda guerra mon­diale.»

«David, possiamo rimandare il nostro simpatico inventario, okay? Il problema è questo: cosa facciamo adesso?» Non avevo più tanta paura, anche se continuavo a guardare lo spazio vuoto, un tempo occupato dal demone di granito. E si era trattato del Diavolo, ne ero sicuro. Se non fossimo entrati subito in azione, avrei cominciato a tremare.

«Come facciamo a mettere al sicuro tutto questo per Dora? E dove? Avanti, esaminiamo gli schedari e i taccuini, riordiniamo tutto, troviamo i libri di Wynken de Wilde, prendiamo una decisione e architettiamo un piano», mi esortò David.

«Non pensare neanche di coinvolgere i tuoi antichi alleati mortali», sbottai tutt’a un tratto, in tono sospettoso e sgarbato, devo ammetterlo.

«Ti riferisci al Talamasca?» domandò e mi guardò. Stringeva il prezioso Libro d’Ore, la copertina fragile come pasta frolla.

«Appartiene tutto a Dora, dobbiamo salvarlo per lei. E Wyn­ken è mio, se Dora davvero non lo vuole.»

«Certo, capisco», rispose. «Santo cielo, Lestat, credi che io sia ancora in contatto col Talamasca? In un simile ambito ci si potrebbe fidare ciecamente dei suoi membri, ma non voglio ave­re nessun contatto coi miei antichi alleati mortali, come li chiami tu. Non voglio averne mai più. Non voglio che il mio fascicolo fi­guri nei loro archivi come tu volevi che vi figurasse il tuo, ricor­dalo. Il vampiro Lestat. Non voglio che mi ricordino affatto, se non come il loro Generale Superiore morto di vecchiaia. Adesso muoviamoci.»

C’era una lieve traccia di disgusto nella sua voce, e anche di dolore. Ricordai che la morte di Aaron Lightner, il suo vecchio amico, aveva rappresentato «l’ultima goccia» per lui e il suo Talamasca. Un’imprecisata controversia aveva circondato la scom­parsa di Lightner, ma non scoprii mai di cosa si trattasse.

Lo schedario si trovava in una stanza antistante il salotto, in­sieme con diversi altri scatoloni pieni di incartamenti. Trovai su­bito i documenti contabili e li esaminai, mentre David controlla­va il resto.

Poiché dispongo di un ingente patrimonio, non sono del tut­to a digiuno in fatto di documenti legali e di stratagemmi usati dalle banche internazionali. Ebbene sì, a Dora spettava un’ere­dità proveniente da fonti irreprensibili — questo riuscii ad accer­tarlo — che non potevano essere nemmeno sfiorate da quanti cer­cavano un indennizzo per i crimini commessi da Roger. Era tut­to intestato a Theodora Flynn, probabilmente il nome legale di Dora, risultato dello pseudonimo adottato da Roger in occasio­ne del matrimonio. C’erano troppi documenti perché io potessi stabilire il valore totale del patrimonio, scoprii solo che era stato accumulato nel corso degli anni. Dora, volendo, avrebbe potuto organizzare una nuova crociata per riprendere Istanbul ai tur­chi. Vi erano anche alcune lettere... Riuscii a individuare la data esatta di due anni prima in cui Dora aveva rifiutato qualsiasi ul­teriore aiuto dai due fondi fiduciari dei quali era a conoscenza. Quanto al resto, mi chiesi se lei avesse un’idea dello scopo.