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Annuii. Non avrei mai immaginato che mi avrebbe permesso di assistere. Louis detestava che lo guardassi. L’anno prima, quando noi tre avevamo passato un po’ di tempo insieme, David si era dimostrato di gran lunga troppo riluttante e sospettoso per avanzare una simile proposta.

Scendemmo nella fitta oscurità innevata di Central Park. Si sentivano ovunque gli occupanti notturni del parco, un fioco russare, borbottii, frammenti di conversazione, fumo. Quelli so­no individui robusti, capaci di vivere allo stato brado nel bel mezzo di una città che è notoriamente fatale per gli abitanti me­no abbienti.

David trovò presto ciò che cercava: un giovane con la papali­na, le dita dei piedi che spuntavano dalle scarpe rotte, a passeg­gio di notte, da solo, drogato, insensibile al freddo e intento a parlare ad alta voce di gente ormai morta da tempo.

Rimasi in disparte sotto gli alberi, bagnato dalla neve e indif­ferente. David allungò una mano verso la spalla del giovanotto, lo fece voltare delicatamente e lo abbracciò. Un classico. Mentre David si chinava su di lui per bere, il giovane cominciò a ridere e a parlare allo stesso tempo. E poi tacque, paralizzato, finché il corpo non venne steso a riposare ai piedi di un albero spoglio.

Verso sud, i grattacieli di New York sfavillavano, e, intorno a noi, come in un abbraccio, si stendevano le luci più calde e più piccole dell’East e del West Side. David rimase immobile e io mi chiesi a cosa stesse pensando. Pareva aver perso la capacità di muoversi. Mi avvicinai. In quel momento non era il tranquillo, zelante archivista, sembrava che stesse soffrendo.

«Cosa c’è?» gli chiesi.

«Lo sai. Non sopravvivrò poi così a lungo», sussurrò.

«Lo credi davvero? Coi doni che ti ho dato...»

«Sstt, siamo troppo abituati a dirci cose che sappiamo inac­cettabili per l’altro. Dovremmo smettere.»

«E dire soltanto la verità? D’accordo. Eccoti la verità. Hai l’impressione di non poter sopravvivere. Adesso, mentre il suo sangue è caldo e scorre impetuoso dentro di te: è naturale; ma non ti sentirai così in eterno. È quella la chiave. Non intendo di­scutere oltre della sopravvivenza. Ho fatto un energico tentativo di mettere fine alla mia vita e non ha funzionato; inoltre, ho ben altro cui pensare: a questa Cosa che mi sta seguendo, e a come posso aiutare Dora prima che essa mi raggiunga.» Questo lo ri­dusse al silenzio.

C’incamminammo insieme, alla maniera mortale, nel parco buio, i miei piedi che affondavano scricchiolando nella neve. En­trammo e uscimmo dai boschetti privi di foglie, scostando i neri rami bagnati, i distanti edifici di midtown che non sparivano mai del tutto.

Temendo di sentire di nuovo il rumore di passi, avevo i nervi a fior di pelle e una cupa ipotesi mi era appena balenata nel cervel­lo: che l’orrenda Cosa manifestatasi, il Diavolo in persona o chiunque fosse, avesse semplicemente dato la caccia a Roger...

Ma allora cosa c’entrava l’uomo, anonimo e dall’aspetto asso­lutamente ordinario? Ecco com’era diventato nella mia mente l’uomo che avevo intravisto prima dell’alba.

Ci avvicinammo alle luci di Central Park South, gli edifici che svettavano più alti, con un’arroganza che nemmeno Babilonia avrebbe potuto ostentare, sfidando il paradiso. Ma c’erano i confortanti suoni prodotti dai ricchi e da gente indaffarata, che andava e veniva, e lo strombazzare dei taxi intensificava il fra­stuono.

David stava rimuginando, offeso.

Alla fine dissi: «Se tu avessi visto la Cosa che ho visto io, non saresti così ansioso di passare alla fase successiva». Sospirai. Non avrei descritto nuovamente l’essere alato a nessuno di noi due.

«Ne sono ispirato, non puoi immaginare quanto», confessò.

«Finire all’inferno? Con un Diavolo come quello?»

«Hai avuto l’impressione che fosse infernale? Hai percepito la presenza del male? Te l’ho già chiesto. L’hai percepita quando la Cosa ha preso Roger? Roger ti ha dato l’impressione di soffri­re?»

Trovavo quelle domande un po’ caviliose. «Non essere trop­po ottimista riguardo alla morte. Ti avviso. Le mie opinioni stan­no cambiando. Adesso il mio ateismo e il nichilismo di un tempo mi appaiono superficiali, e persino leggermente arroganti», ri­sposi.

Lui sorrise con l’aria di voler liquidare l’argomento, come aveva sempre fatto quando era un mortale e portava l’alloro della veneranda età. «Hai mai letto i racconti di Hawthorne?» mi chiese con dolcezza. Avevamo raggiunto la strada, l’avevamo at­traversata e adesso stavamo costeggiando lentamente la fontana di fronte al Plaza.

«Sì, una volta o due», risposi.

«E ricordi la ricerca del ‘peccato imperdonabile’ da parte di Ethan Brand?»

«Credo di sì. Brand andò a cercarlo e si lasciò alle spalle il suo prossimo.»

«Cerca di ricordare questo paragrafo», ribattè in tono genti­le. Imboccammo la Quinta, una strada che non è mai deserta o buia. David mi citò queste righe: «‘Aveva perso la presa sulla ca­tena magnetica dell’umanità. Non era più un fratello-uomo, ca­pace di aprire le camere o i sotterranei della nostra comune natu­ra con la chiave della solidarietà sacra, che gli dava il diritto di condividerne tutti i segreti; adesso era un freddo osservatore, che esaminava il genere umano come se fosse l’oggetto del suo esperimento e, alla fine, trasformava l’uomo e la donna nelle sue marionette, e ne tirava i fili portandole ai livelli di crimine essen­ziali al suo studio’».

Non dissi nulla. Volevo protestare, ma non sarebbe stato one­sto. Volevo rispondere che non avrei mai e poi mai trattato gli umani come marionette. Non avevo fatto altro che osservare Ro­ger, dannazione, e Gretchen nella giungla. Non avevo tirato nes­sun filo. L’onestà aveva rovinato sia lei sia me, insieme. Ma, in fin dei conti, lui, nel pronunciare quelle parole, non stava parlando di me, bensì di sé, della distanza che ormai sentiva tra se stesso e gli umani: aveva cominciato a trasformarsi in Ethan Brand.

«Lasciami continuare ancora un po’», chiese rispettosamen­te, poi ricominciò a citare. «‘Così Ethan Brand divenne un de­mone. Cominciò a esserlo nel momento in cui la sua natura mo­rale cessò di mantenere il passo con il miglioramento del suo in­telletto...’» S’interruppe.

Rimasi in silenzio.

«È questa la nostra dannazione. Il nostro progresso morale si è concluso mentre il nostro intelletto cresce a vista d’occhio», sussurrò.

Non aprii bocca nemmeno stavolta. Cosa avrei dovuto dire? La disperazione mi era così familiare... Poteva essere allontanata dalla visione di uno splendido manichino in vetrina; scacciata dallo spettacolo delle luci intorno a una torre; cancellata dall’e­norme sagoma spettrale di San Patrizio che cominciava ad appa­rire in lontananza. Ma poi sarebbe tornata.

Privo di significato, dissi quasi, ma ciò che mi uscì dalle labbra era completamente diverso. «Devo pensare a Dora», annunciai.

Dora.

«Sì, e grazie a te adesso devo pensarci anch’io, vero?» ribattè David.

6

Come e quando parlare con Dora, e cosa dirle? Era quella la do­manda cruciale. Nelle prime ore della sera seguente ci recammo a New Orleans.

Non c’era traccia di Louis nella casa di Rue Royal, il che non era affatto insolito. Louis vagabondava sempre più spesso, e una volta David lo aveva visto in compagnia di Armand a Parigi. La casa era immacolata, un sogno al di fuori del tempo, piena dei miei mobili preferiti in stile Luigi XV, elegante carta da parati e i tappeti più belli del mondo.

David, naturalmente, la conosceva, benché non la vedesse da più di un anno. Una delle tante camere perfette, arredata con se­te color zafferano e stravaganti tavoli turchi e paraventi, ospitava ancora la bara in cui aveva dormito durante il suo primo, breve soggiorno come uno dei Non Morti.