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Ovviamente, la cassa era ben camuffata. Lui aveva insistito per avere una bara vera e propria — come i vampiri novizi fanno quasi invariabilmente, a meno che non siano nomadi per natu­ra —, ma era nascosta in modo abbastanza ingegnoso all’interno di un massiccio cassone di bronzo, che Louis aveva scelto appo­sitamente in un secondo tempo: un grosso e ingombrante paral­lelepipedo, in apparenza privo di aperture anche se, com’è ov­vio, bastava premere i punti giusti perché il coperchio si sollevas­se all’istante.

Durante il restauro di quella casa, in cui un tempo avevo vis­suto con Claudia e Louis, mi ero creato un posticino in cui ripo­sare. Non nella mia vecchia stanza, che adesso ospitava solo il massiccio letto a baldacchino e il tavolino da toeletta di rigore, bensì in mansarda, sotto il tetto, dove avevo ideato una cella di metallo e marmo.

In breve, avevamo a disposizione una comoda base, e mi sen­tii francamente sollevato dal fatto che Louis non fosse lì a dirmi che non mi credeva, qualora avessi descritto ciò che avevo visto. Le sue stanze erano in perfetto ordine; erano stati aggiunti nuovi libri. C’era un vivace, pregevole nuovo dipinto di Matisse; per il resto, le cose erano rimaste immutate.

Non appena ci fummo sistemati e dopo aver controllato l’ine­spugnabilità della casa come fanno sempre gli immortali, con un allegro esame e una forte riluttanza nel dover fare qualsiasi cosa debbano fare i mortali, decidemmo che mi conveniva raggiunge­re i quartieri residenziali per cercare di vedere, almeno di sfuggi­ta, Dora da sola.

Non avevo più visto o sentito il Pedinatore, benché non fosse passato poi molto tempo, né avevo visto l’Uomo Comune.

Su una cosa David e io eravamo d’accordo: entrambi poteva­no apparire in qualunque momento.

Ciononostante, mi separai dal mio amico, lasciando che egli esplorasse la città come desiderava.

Prima di lasciare il quartiere francese passai a trovare Mojo, il mio cane. Se ancora non conoscete Mojo grazie al Ladro di Corpi, lasciate che vi fornisca solo le informazioni essenziali: è un gigantesco pastore tedesco, accudito da una gentilissima donna mortale in un edificio di mia proprietà, e mi ama, cosa che trovo irresistibile. È un cane, niente di più e niente di meno, solo che è enorme, col pelo estremamente folto, e io non posso restargli lontano a lungo.

Trascorsi un’ora o due con Mojo, lottando, rotolandomi con lui sul terriccio nel giardino sul retro e raccontandogli tutto quel­lo che era successo, poi cercai di decidere se dovevo portarlo con me nei quartieri residenziali. Il suo muso scuro, allungato, simile a quello di un lupo e solo in apparenza crudele, rivelava la con­sueta gentilezza e pazienza. Dio, perché non ci hai reso tutti cani?

In realtà, Mojo mi dava un senso di sicurezza. Se fosse arriva­to il Diavolo e io avessi avuto Mojo al mio fianco... Ma era un’i­dea davvero assurda! Che riuscissi a parare l’attacco dell’inferno grazie a un cane fatto di carne e sangue! Be’,gli umani hanno creduto a cose anche più bizzarre, presumo.

Poco prima di separarmi da David gli avevo chiesto: «Cosa pensi che stia succedendo? Mi riferisco al Pedinatore e a questo Uomo Comune».

E lui aveva risposto senza esitazione: «Sono tutti e due frutto della tua immaginazione, ti punisci implacabilmente; non cono­sci altro modo per continuare a divertirti».

Avrei dovuto sentirmi offeso. Ma non era così.

Dora era reale.

Alla fine decisi di non portare Mojo con me. Stavo per spiare Dora. E dovevo muovermi rapidamente. Baciai il cane e me ne andai. Più tardi avremmo passeggiato nei terreni incolti da noi preferiti sotto il River Bridge, tra l’erba e i rifiuti, e saremmo ri­masti insieme. Avrei goduto di quel piacere finché la natura me lo avesse concesso. Per il momento, poteva aspettare. Torniamo a Dora.

Naturalmente, lei non sapeva della morte di Roger. Non pote­va saperlo, a meno che Roger non le fosse apparso. Ma, parlando con lui, non avevo avuto motivo di pensare che esistesse una si­mile possibilità. A quanto sembrava, palesarsi a me aveva esauri­to tutte le sue energie. In realtà, pensavo che fosse stato di gran lunga troppo protettivo nei confronti di Dora da poterla tormen­tare in modo concreto o deliberato.

Ma cosa sapevo dei fantasmi? Eccettuata qualche apparizione irrilevante, non avevo mai parlato con un fantasma prima di par­lare con Roger.

E adesso avrei portato per sempre con me l’indelebile sensa­zione del suo amore per Dora, e il suo bizzarro miscuglio di con­sapevolezza e suprema fiducia in se stesso. Giudicata col senno di poi, persino la sua visita sembrava rivelare una straordinaria sicurezza da parte di Roger. Non era impossibile che lui posse­desse la facoltà di apparire ai vivi, dato che il mondo è pieno di impressionanti e plausibili storie di fantasmi. Tuttavia riuscire a coinvolgere me in una conversazione — riuscire a trasformare me nel suo confidente —, questo aveva davvero richiesto un orgoglio smisurato e quasi incredibile.

Mi diressi verso i quartieri residenziali alla maniera umana, respirando l’aria del fiume, felice di essere tornato alle mie quer­ce dalla corteccia nera, alle ampie case fiocamente illuminate di New Orleans, alle onnipresenti intrusioni di erba e rampicanti e fiori; insomma, a casa.

Raggiunsi troppo presto il vecchio convento di mattoni di Napoleon Avenue in cui viveva Dora. Napoleon Avenue è una via davvero mirabile anche per New Orleans; sfoggia un’aiuola spartitraffico molto ampia, là dove un tempo passavano i tram. Nell’aiuola sono stati piantati folti alberi da ombra, uguali a quelli che circondavano l’antistante convento. La frondosa pro­fondità dei quartieri residenziali vittoriani.

Mi avvicinai lentamente all’edificio, ansioso d’imprimermi nella memoria ogni suo dettaglio. Com’ero cambiato dall’ultima volta in cui avevo spiato Dora.

Il convento sfoggiava uno stile Secondo Impero, col tetto a mansarda che sormontava il corpo centrale dell’edificio e le sue lunghe ali. Qua e là, vecchie tegole d’ardesia erano cadute dal tetto spiovente, concavo al centro e quindi alquanto insolito. La costruzione in sé, le finestre ad arco arrotondate, le quattro torri angolari, il portico a due piani tipico di una villa di piantagione e che correva davanti al corpo centrale — con le sue colonne bian­che e le balaustre in ferro battuto nero —, tutto ciò rappresentava uno stile italiano alla New Orleans e risultava gradevolmente proporzionato. Vecchie grondaie di rame si aggrappavano alla base dei tetti. Non c’erano persiane, ma di sicuro un tempo c’e­rano state.

Le finestre erano numerose, alte, con la sommità arrotondata al secondo e al terzo piano, profilate di bianco sbiadito.

Un grande giardino dalla rada vegetazione occupava lo spazio antistante all’edificio e affacciato sul viale, e già conoscevo l’im­menso cortile interno. L’intero isolato era dominato da questo microcosmo in cui un tempo avevano abitato suore e orfane, ra­gazzine di ogni età. Grandi querce protendevano i rami sui mar­ciapiedi. Un filare di antichissimi arbusti di Lagerstroemia indica fiancheggiava la strada laterale verso sud.

Girando intorno al fabbricato, esaminai le alte finestre di ve­tro istoriato della cappella a due piani e notai il tremolio di una luce all’interno, come se fosse presente il Santissimo Sacramento — cosa di cui dubitavo —, poi, raggiunto il retro, scavalcai il muro.

L’edificio aveva alcune porte chiuse a chiave, ma non tutte. Era avviluppato dal silenzio, e nell’inverno mite ma, comunque, presente di New Orleans, l’interno era più freddo dell’esterno.

Entrai con cautela nel corridoio a pianoterra e mi ritrovai su­bito ad ammirare le proporzioni dell’ex convento, l’imponenza e l’ampiezza dei corridoi, l’intenso profumo delle pareti con i mattoni a vista e il gradevole aroma dei pavimenti fatti di assi di pino americano. Il tutto aveva un che di grezzo, sfoggiando il carattere rustico tanto in voga tra gli artisti delle grandi città che vivono in vecchi magazzini o chiamano loft i loro immensi ap­partamenti.