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Ma questo non era un magazzino. Era stato un’abitazione, e in un certo senso consacrata. Me ne accorsi subito. Percorsi len­tamente il lungo corridoio che portava alla scalinata di nord-est. Dora abitava sopra, alla mia destra, nella torre di nord-est, e il suo alloggio cominciava solo al terzo piano.

Non percepii alcuna presenza nell’edificio. Niente profumo di Dora né rumori prodotti da lei. Sentii i topi, gli insetti, un ani­male poco più grande di un topo, forse un procione, che mangia­va in un punto imprecisato del solaio, e poi cercai d’individuare eventuali spettri, come li chiamava David... quelli che io preferi­sco definire spiriti o Poltergeist.

Rimasi immobile, con gli occhi chiusi. In ascolto. Sembrava che il silenzio mi rinviasse flebili emanazioni di diverse persona­lità, ma erano decisamente troppo deboli e troppo mescolate per toccare il mio cuore o suscitare un pensiero in me. Sì, fantasmi lì, e anche lì... ma non percepii nessuna turbolenza spirituale, nes­suna tragedia irrisolta o ingiustizia perdurante. Anzi, sembrava regnare una certa immobilità e stabilità spirituale.

L’edificio era a posto. Penso che apprezzasse di essere stato ri­portato alla sua essenzialità ottocentesca; persino i soffitti a tra­vetti, benché non costruiti per restare a vista, risultavano comunque splendidi senza l’intonaco, col loro legno scuro e massiccio, perfettamente livellato, perché a quei tempi tutte le opere di fale­gnameria erano state eseguite con estrema accuratezza.

La scalinata era originale. Avevo salito un migliaio di scalinate simili costruite a New Orleans. Il fabbricato di Dora ne contene­va almeno cinque. Conoscevo la lieve curvatura di ogni gradino, consumato da piedi infantili, la superficie serica del corrimano che per un secolo era stato cosparso di cera innumerevoli volte. Conoscevo il pianerottolo ricavato a ridosso di una finestra ester­na, ignorando la forma o l’esistenza di quest’ultima e dividendo semplicemente in due la luce che entrava dalla strada.

Quando raggiunsi il secondo piano, mi resi conto di trovarmi sulla soglia della cappella. Lo spazio non mi era sembrato così ampio dall’esterno. In realtà, era vasta come molte delle chiese che avevo visto ai miei tempi. Una ventina di banchi era ordina­tamente allineata sui due lati della navata centrale; il soffitto a stucchi era a volta e delimitato da eleganti modanature; antichi medaglioni erano ancora fissati saldamente all’intonaco, al quale un giorno erano stati di sicuro sospesi dei lampadari a bracci con lumi a gas. Le finestre dai vetri istoriati, benché prive di figure umane, erano state realizzate con notevole maestria, come il lam­pione metteva in risalto; e i nomi dei mecenati erano inscritti sul­la sezione inferiore di ciascuna finestra. Non c’erano luci sull’al­tare, solo una fila di candele davanti a una Maria Regina di gesso, cioè una Vergine che portava una corona riccamente decorata.

La cappella doveva essere più o meno come l’avevano lasciata le suore quando il convento era stato venduto. C’era persino l’acquasantiera, benché non sorretta da un angelo gigantesco; era semplicemente un bacile di marmo posato su un piedistallo.

Entrando, passai sotto una cantoria, stupito dalla purezza e dalla simmetria del suo disegno architettonico. Com’era, vivere in un edificio dotato di cappella privata? Duecento anni prima mi ero inginocchiato più di una volta in quella di mio padre, ma si era trattato semplicemente di una minuscola stanza di pietra nel nostro castello, e l’ambiente in cui mi trovavo adesso, così va­sto, coi suoi vecchi ventilatori elettrici oscillanti che creavano un po’ di brezza d’estate, non sembrava meno autentico di quanto fosse stata l’angusta cappella di mio padre.

Questa somigliava di più a una cappella reale e, d’un colpo, l’intero convento mi sembrò una reggia, invece di un istituto. M’immaginai a viverci, non nel modo che Dora avrebbe apprez­zato, ma nello sfarzo, con chilometri di pavimenti lucidi che si estendevano davanti a me mentre, ogni notte, andavo a pregare in questo grande santuario.

Mi piaceva, quel posto. Un’idea mi balenò nella mente: comprare un convento, trasformarlo nella mia reggia, vivere nella sua sicurezza e magnificenza in un punto dimenticato di una città moderna! Fui assalito dalla bramosia, e il mio rispetto per Dora si rafforzò.

Innumerevoli europei abitavano ancora in simili edifici, a più piani, le ali secondarie poste l’una di fronte all’altra in costose corti private. Parigi vantava di sicuro parecchie ville come que­sta. Ma in America la prospettiva di vivere in un lusso del genere risultava davvero allettante.

Tuttavia non era stato questo il sogno di Dora. Lei voleva ad­destrare lì le sue donne, le sue predicatrici che avrebbero diffuso la parola di Dio con lo stesso ardore di san Francesco o di Bonaventura.

Be’,se la sua fede fosse stata tutt’a un tratto messa in crisi dal­la morte di Roger, avrebbe potuto vivere lì nella magnificenza.

E quale possibilità avevo io d’influenzare il sogno di Dora? Di chi avrei esaudito i desideri se, chissà come, l’avessi messa nella posizione di accettare la sua immensa ricchezza e trasformarsi in una principessa dentro quell’elegante palazzo? Un essere umano salvato dall’infelicità che la religione può tanto agevolmente pro­vocare?

Non era un’idea del tutto malvagia. Era proprio da me: pen­sare in termini di paradiso sulla terra, appena dipinto in tinte pa­stello, pavimentato di pietra pregiata, e col riscaldamento cen­trale.

Terribile, Lestat.

Chi ero per pensare cose simili? Ehi, avremmo potuto vivere lì come la Bella e la Bestia, Dora e io. Scoppiai in una fragorosa risata. Un brivido mi corse lungo la schiena, ma non sentii i passi. All’improvviso, fui assalito da un senso di solitudine. Rimasi in ascolto. M’infuriai. «Non osare avvicinarti a me, adesso. Mi tro­vo in una cappella. Sono al sicuro! Al sicuro come se fossi in una cattedrale», sussurrai al Pedinatore che non era lì, per quanto ne sapessi.

Mi chiesi se stesse ridendo di me. Lestat, è tutto frutto della tua immaginazione.

Non aveva importanza. Percorri la navata di marmo fino alla cancellata dell’altare. Sì, ce n’era ancora una. Osserva ciò che hai davanti e, per il momento, non pensare.

La voce incalzante di Roger parlava all’orecchio della mia me­moria. Ma amavo già Dora, vero? Ero lì. Avrei di sicuro fatto qualcosa. Ma stavo prendendo tempo!

I miei passi echeggiarono in tutta la cappella. Lasciai che lo facessero. Le Stazioni della Croce, piccole, scolpite ad altorilievo nello stucco, erano ancora appese tra le finestre di vetro istoria­to, girando come di consueto tutt’intorno alla chiesa, mentre l’al­tare era scomparso dalla sua profonda nicchia arcuata; al suo po­sto spiccava un enorme Cristo in croce.

I crocifissi mi hanno sempre affascinato. Esistono diversi mo­di di rappresentare i vari dettagli, e l’arte del Cristo in croce riempie da sola molti musei del mondo, oltre alle cattedrali e alle basiliche che sono divenute musei. Ma quello, persino per me, era davvero notevole: enorme, antico, molto realistico nello stile tipico del tardo Ottocento, il succinto perizoma del Cristo che si attorcigliava nel vento, il suo viso scarno e profondamente addo­lorato. Era sicuramente una delle scoperte di Roger, perché era troppo grande per l’abside e inoltre di pregevolissima fattura, mentre i santi di gesso disseminati qua e là sui piedistalli — la pre­vedibile e graziosa santa Teresa di Lisieux con la tonaca carmeli­tana, la croce e il mazzo di rose; san Giuseppe col giglio; e persi­no Maria Regina con la corona nell’altarino accanto all’altare — erano tutti più o meno convenzionali, a grandezza naturale e ac­curatamente dipinti, ma di certo non opere d’arte di valore.