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Il Cristo crocifisso ti spingeva a prendere una decisione; t’induceva a pensare: «Odio il cristianesimo, così sanguinario» op­pure suscitava in te un sentimento più doloroso, magari il ricordo della volta in cui, da giovane, avevi immaginato le tue mani trafitte da quei particolari chiodi. Quaresima. Meditazioni. La Chiesa. La voce del sacerdote che intonava le parole: Nostro Signore.

Provai sia l’odio sia il dolore. Indugiando lì tra le ombre, guardando le luci esterne tremolare e sfavillare nei vetri istoriati, sentii vicino a me i ricordi dell’adolescenza, o forse mi limitai a tollerarli. Poi pensai all’amore di Roger per la figlia e capii che i ricordi non erano niente mentre l’amore era tutto. Salii i gradini che un tempo avevano portato all’altare e al tabernacolo. Solle­vai una mano per toccare il piede della figura crocifissa. Legno vecchio. Tremolio di inni, fioco e reticente. Alzai lo sguardo ver­so il volto e vidi un’espressione non contorta dalla sofferenza, ma saggia e imperturbabile, forse quella degli ultimi istanti pri­ma della morte.

Un forte rumore echeggiante risuonò in un punto imprecisato della costruzione. Indietreggiai troppo in fretta, inciampai e mi ritrovai a fissare la chiesa. Qualcuno si era mosso nell’edificio, qualcuno che camminava lento al piano inferiore e si avvicinava alla stessa scalinata salendo la quale avevo raggiunto la porta del­la cappella.

Mi spostai rapidamente verso l’entrata del vestibolo. Non riu­scivo a sentire nessuna voce né a individuare nessun odore! Nes­sun odore. Ebbi un tuffo al cuore. «Basta, non lo sopporto!» sussurrai. Stavo già tremando. Però ci sono odori mortali che non percepisco così agevolmente; bisogna tenere conto della brezza, o, meglio, delle correnti d’aria, che lì erano considerevoli. La figura stava salendo i gradini.

Mi piegai all’indietro, nascosto dalla porta della cappella, per poterla vedere mentre svoltava sul pianerottolo. Se si fosse trat­tato di Dora mi sarei subito nascosto.

Ma non era Dora, e salì la scala così rapidamente, avvicinan­dosi a me con passo leggero e vivace, che capii chi fosse solo mentre mi si fermava davanti. L’Uomo Comune.

Rimasi immobile, guardandolo. Non proprio alto come me; non proprio robusto come me; normale sotto ogni punto di vi­sta, esattamente come ricordavo. Privo di odore? No, ma l’odore non era quello giusto. Era mischiato a sangue e sudore e sale, e sentivo un flebile battito cardiaco...

«Non tormentarti. Sto cercando di decidere: dovrei farti la mia proposta adesso oppure dopo che sarai restato coinvolto con Dora? Non so cosa sia più indicato», disse, in tono civile e diplomatico.

In quel momento distava da me poco più di un metro.

Mi appoggiai con aria arrogante allo stipite della porta del ve­stibolo e incrociai le braccia. La cappella si trovava alle mie spal­le. Sembravo spaventato? Lo ero? Stavo per morire di paura?

«Hai intenzione di dirmi chi sei e cosa vuoi, oppure devo farti delle domande per cavartelo fuori?» chiesi.

«Sai benissimo chi sono», rispose nello stesso modo semplice e diretto.

All’improvviso, ebbi un’illuminazione. La caratteristica fuori del comune erano le proporzioni del suo corpo e del suo viso. La regolarità. Era un uomo piuttosto banale.

Sorrise. «Precisamente. È la forma che preferisco in ogni epo­ca e in ogni luogo, perché non attira l’attenzione. Andarsene in giro con ali nere e zampe caprine, sai... sconvolge a tal punto i mortali.» Anche stavolta il tono era benevolo.

«Voglio che tu esca di qui prima che arrivi Dora!» sbottai. Mi ero all’improvviso trasformato in un pazzo farfugliante.

Lui si voltò, si diede una pacca sulla coscia e scoppiò a ridere. «Sei un marmocchio viziato, Lestat. Le tue coorti ti hanno attri­buito il soprannome adatto. Tu non puoi dare ordini a me», ri­spose con voce tranquilla e pacata.

«Non capisco perché. E se ti buttassi fuori?»

«Ti piacerebbe provarci? Devo assumere l’altra mia forma? Devo lasciare che le mie ali...»

Sentii un chiacchierio di voci e la mia vista cominciò ad an­nebbiarsi per un improvviso polverone. «No!» gridai.

«D’accordo.»

La metamorfosi s’interruppe e il polverone si posò. Sentii il mio cuore premere contro il torace come se volesse uscire.

«Voglio dirti cosa intendo fare. Ti lascerò gestire la situazione con Dora, visto che ne sembri ossessionato. E non potrò disto­glierti dalla faccenda. Poi, quando avrai finito con tutto ciò, con questa ragazza, i suoi sogni e roba simile, noi due potremo parla­re», spiegò.

«Di cosa?»

«Della tua anima, di cos’altro?»

«Sono pronto ad andare all’inferno», risposi, mentendo spu­doratamente. «Ma non credo che tu sia ciò che sostieni di essere. Sei qualcosa, qualcosa come me per cui non esistono spiegazioni scientifiche, però dietro tutto ciò c’è un piccolo, insulso nucleo di elementi che alla fine metteranno a nudo ogni cosa, persino la consistenza di ogni piuma nera delle tue ali.»

Lui si accigliò appena, ma non era arrabbiato. «Non conti­nueremo con questo ritmo, te l’assicuro. Per il momento ti la­scerò pensare a Dora, che sta tornando a casa; la sua auto si è ap­pena fermata nel cortile. Io sto per uscire, con andatura regolare, da dove sono entrato. E voglio darti un consiglio, per il bene di entrambi.»

«Quale?»

Mi diede le spalle e cominciò a scendere la scala, rapido e vi­vace come quando l’aveva salita. Non si voltò finché non ebbe raggiunto il pianerottolo. Avevo già captato l’odore di Dora. «Che consiglio?» domandai.

«Lascia perdere Dora. Affida la gestione dei suoi affari ad av­vocati umani. Vattene di qui. Abbiamo questioni più importanti di cui discutere. Tutto ciò è una tale fonte di distrazione...» Poi scese rumorosamente la scalinata e uscì da una porta laterale, che sentii aprirsi e chiudersi.

Quasi subito dopo, sentii Dora varcare l’ingresso posteriore principale al centro dell’edificio, lo stesso da cui ero entrato io e da cui era entrato lui, e imboccare il corridoio.

Cantava sommessamente, o forse dovrei dire che canticchiava a bocca chiusa. Emanava il dolce aroma di sangue uterino. Me­struazioni. In modo irritante, questo amplificava l’odore succu­lento della bambina mi si stava avvicinando.

Indietreggiai, nascondendomi tra le ombre del vestibolo. Lei non mi avrebbe visto né avrebbe avuto il minimo sentore della mia presenza mentre mi passava davanti e poi saliva la scala se­guente, raggiungendo la sua stanza al terzo piano.

Stava salendo i gradini a due a due e arrivò al secondo piano. Aveva uno zainetto sulla spalla e indossava un bell’abito ampio di cotone a fiori, con lunghe maniche bordate di pizzo bianco. Svoltò per salire i gradini ma, d’un tratto, si bloccò. Si girò verso di me. M’immobilizzai. Non poteva certo vedermi nella penombra. Poi mi si avvicinò e allungò una mano. Vidi le sue dita candide toccare qualcosa sulla parete, un interruttore. Un semplice interruttore di plastica bianca, e tutt’a un tratto dalla lampadina soprastante sgorgò una cascata di luce.

Immaginate la scena: l’intruso biondo, gli occhi nascosti dagli occhiali viola, elegante e impeccabile — non più macchiato del sangue del padre di lei —, in giacca e pantaloni di lana nera.

Alzai le mani come per dire che non volevo farle del male! Ero senza parole. Sparii. Cioè, la oltrepassai con una tale rapidità che quasi non se ne accorse; la sfiorai così come l’avrebbe sfiora­ta l’aria. Tutto qui. Salii le due rampe di scale fino al solaio e var­cai una porta aperta sugli spazi vuoti sopra la cappella, dove solo poche finestre d’abbaino lasciavano entrare dalla strada una luce fioca. Una delle finestre era rotta. Un modo rapido per uscire. Ma mi fermai e mi sedetti nell’angolo, immobilizzandomi. Mi fe­ci piccolo. Accostai le ginocchia al petto, mi sistemai gli occhiali e guardai, sul lato opposto del solaio, la porta da cui ero entrato.