Sembrava sbigottita.
«Nosferatu. Verdilak. Vampiro. Lamia. Vincolati alla terra.» Mi strinsi nelle spalle, scossi il capo. Mi sentivo del tutto impotente. «Esistono altre specie di esseri. Ma Roger, dopo il fatto, è venuto a parlarmi con la sua anima sotto forma di fantasma, a parlarmi di te.»
Cominciò a tremare e a piangere. Ma non era follia. I suoi occhi si restrinsero per le lacrime e il suo viso si raggrinzì per la tristezza.
«Dora, non ti farei del male per nulla al mondo, lo giuro. Non ti farò del male...»
«Mio padre è proprio morto, vero?» chiese, e tutt’a un tratto crollò, il viso tra le mani, le spalle minute scosse dai singhiozzi. «Mio Dio, Dio, aiutami! Roger!» gridò. «Roger!» Si fece il segno della croce e rimase seduta lì, singhiozzante ma senza paura.
Aspettai. Le sue lacrime e il suo dolore sembravano inesauribili. Si disperava sempre più; si piegò in avanti e si accasciò sul pavimento di legno. Continuava a non aver paura di me. Era come se io non mi trovassi lì.
Mi staccai, lento, dall’angolo. Ci si poteva raddrizzare agevolmente in quel solaio, se ci si allontanava dagli angoli. Le girai intorno e poi, con delicatezza, allungai le mani per stringerle le spalle.
Non oppose resistenza; stava singhiozzando, e la sua testa ciondolava come se fosse ubriaca di dolore; le mani si mossero, ma solo per sollevarsi e cercare di afferrare qualcosa che non c’era. «Dio, Dio, Dio», gridava. «Dio... Roger!»
La costrinsi ad alzarsi. Era leggera come avevo immaginato, ma simili dettagli sono comunque irrilevanti per chi è forte come me. La portai fuori del solaio. Si abbandonò contro il mio petto.
«Lo sapevo, l’ho capito quando mi ha baciato, ho capito che non l’avrei più rivisto. Lo sapevo...» mormorò tra un singhiozzo e l’altro. Le sue parole risultavano a malapena intelligibili. Era talmente piccola e fragile che dovevo stare attentissimo, e quando la sua testa ricadde all’indietro, il viso era così pallido da poter ridurre in lacrime anche un demone.
Raggiunsi la porta della sua camera. Dora era accasciata contro di me, simile a una bambola di pezza gettata tra le mie braccia, e non opponeva resistenza. Dalla sua stanza usciva un lieve tepore; aprii la porta con una spinta.
Essendo stata in origine un’aula scolastica o addirittura un dormitorio, la camera era enorme, situata nell’angolo dell’edificio, con eleganti finestre sui due lati e inondata dalla luce della strada. Anche i veicoli di passaggio la illuminavano.
Vidi il suo letto addossato alla parete di fronte, un vecchio letto di ferro, piuttosto spartano, forse originariamente di proprietà del convento, molto stretto, con l’alto telaio rettangolare per la zanzariera ancora intatto, anche se ormai privo di qualunque reticella. La vernice bianca sulle sottili barre di ferro era scrostata. Vidi ovunque scaffali pieni di libri, pile di libri, volumi aperti con tanto di segnalibro e posati su leggii di fortuna; e le reliquie, forse a centinaia, quadri, e statue, e forse oggetti che Roger le aveva dato prima che lei scoprisse la verità. Sulle intelaiature lignee di porte e finestre erano state scritte, in corsivo e con inchiostro nero, delle parole.
Mi avvicinai al letto e vi adagiai Dora. Lei affondò con gratitudine nel materasso e nel cuscino. Lì tutto era lindo, fresco, e lavato tanto spesso e tanto accuratamente da sembrare quasi nuovo.
Le offrii il mio fazzoletto di seta. Lo prese, poi lo guardò e disse: «Ma è troppo bello».
«No, usalo pure, ti prego. Non è niente. Ne ho centinaia d’altri.»
Mi fissò in silenzio, poi si asciugò il viso. Il suo cuore stava battendo più lentamente, ma il suo odore era stato reso ancora più intenso dalle emozioni. Il flusso mestruale. Veniva ordinatamente assorbito da un tampone di cotone bianco sistemato tra le cosce. Permisi a me stesso di pensarci, adesso, perché il flusso era intenso e io trovavo l’odore prepotentemente delizioso. Cominciò a torturarmi, il pensiero di leccare quel sangue. Non è sangue puro, capite, ma viene trasportato dal sangue e io provavo la normalissima tentazione che assale i vampiri in simili circostanze, la tentazione di leccare il sangue dalla più bassa delle bocche di Dora, tra le sue gambe, un modo per cibarmi di lei senza farle alcun male.
Se non che, date le circostanze, questo era un pensiero assolutamente indegno e assurdo.
Ci fu una lunga pausa di silenzio.
Mi limitai a restare seduto su una sedia di legno dallo schienale dritto. Sapevo che lei era di fianco a me, seduta a gambe incrociate, e che aveva trovato una scatola di fazzolettini di carta che le davano un po’ di sollievo, e si stava soffiando il naso e asciugando gli occhi. Stringeva ancora il mio fazzoletto di seta.
Era eccitata dalla mia presenza ma non spaventata, e di gran lunga troppo immersa nel dolore per godersi questa conferma di migliaia di credenze, la compagnia di un vibrante non-umano, che appariva e parlava come se fosse umano. In quel preciso istante non poteva permettersi di assimilare la cosa, ma neppure poteva travalicarla. La sua mancanza di paura significava autentico coraggio. Non era stupida. Si trovava in un luogo talmente al di là della paura che i codardi non potrebbero nemmeno concepirlo.
Gli sciocchi l’avrebbero forse considerata fatalista, eppure non si trattava di fatalismo, era la capacità di pensare al futuro, e quindi di bandire completamente il panico. Alcuni mortali devono sperimentarla poco prima di morire, quando il gioco è finito e ognuno ha già detto addio. Lei osservava ogni cosa in quella prospettiva fatale, tragica, infallibile.
Fissai il pavimento. No, non innamorarti di lei.
Le assi di pino americano erano state sabbiate, verniciate e cosparse di cera. Il colore dell’ambra. Splendido. L’intero palazzo avrebbe potuto avere questo aspetto, un giorno. La Bella e la Bestia. E come Bestia, insomma, credetemi, sono uno schianto.
Mi detestai perché mi stavo divertendo tanto in un momento così drammatico, immaginando di danzare con lei nei corridoi. Pensai a Roger, e questo mi riportò rapidamente al presente e all’Uomo Comune, ah, quel mostro che mi stava aspettando!
Guardai la scrivania di Dora: due telefoni, il computer, altri libri impilati, e nell’angolo un piccolo televisore, apparentemente utilizzato solo per motivi di studio, lo schermo non più largo di dieci o dodici pollici, anche se era connesso con un lungo cavo nero arrotolato e serpeggiante che, come ben sapevo, lo collegava al mondo intero. C’era una miriade di altri apparecchi elettronici lampeggianti. Non era una cella monacale. Le parole, che sembravano scarabocchiate sulle intelaiature bianche di porte e finestre, in realtà formavano frasi compiute, quali «il mistero si oppone alla teologia», «strana agitazione» e, tra tutte le cose possibili, il verso di Keats: «Nel buio, io ascolto».
Sì, pensai, il mistero si oppone alla teologia; era un concetto che Roger aveva cercato di spiegarmi, cioè che Dora non aveva avuto il successo che meritava perché dentro di lei il mistico e il teologico erano mescolati, ma tale fusione non funzionava con l’ardore o la magia adeguati. Roger aveva ripetuto spesso che lei era una teologa, e lui naturalmente considerava misteriose le proprie reliquie. E infatti lo erano.
Fui assalito da un vago ricordo d’infanzia, il ricordo di aver guardato il crocifisso nella nostra chiesa, a casa nell’Auvergne, ed essere rimasto spaventato dalla vista del sangue dipinto che colava dai chiodi. Dovevo essere molto piccolo. Prima di compiere quindici anni fornicavo già con le ragazzine del villaggio sul retro di quella chiesa... una sorta di prodigio all’epoca, ma in fin dei conti nel nostro villaggio ci si aspettava che il figlio del signore fosse un perfetto stallone; tutti se lo aspettavano. E invece i miei fratelli, un gruppetto così tradizionalista, avevano deluso i fautori della mitologia locale, comportandosi sempre in modo irreprensibile. Fu un vero miracolo che le messi non risentissero della loro meschina virtù. Sorrisi. Avevo di certo compensato le loro carenze. Ma quando avevo osservato il crocifisso dovevo avere sei o sette anni al massimo, e avevo detto: «Che modo orribile di morire!» Mi era sfuggito di bocca, e mia madre aveva riso a lungo. Mio padre, invece, si era sentito così umiliato!