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«Dora, devo lasciarti.»

«Cosa c’è?»

I passi erano sempre più vicini.

«Hai il coraggio di venire da me mentre sono con lei!» gridai. Mi ero alzato.

«Cosa c’è?» urlò Dora. Si era inginocchiata sul letto.

Indietreggiai, attraversando la stanza. Raggiunsi la porta. Il rumore dei passi si stava affievolendo. «Va’ all’inferno!» sibilai.

«Dimmi di che si tratta. Tornerai? Stai per lasciarmi per sem­pre?» chiese lei.

«No, assolutamente no. Sono qui per aiutarti. Ascolta, Dora, se hai bisogno di me, chiamami.» Mi posai un dito sulla tempia. «Chiama, chiama e chiama! Come se pregassi, capisci. Non sarà idolatria, Dora, non sono una divinità malvagia. Fallo. Devo an­dare.»

«Come ti chiami?»

I passi continuarono, distanti ma sonori, in un punto impreci­sato dell’immenso edificio, inseguendomi.

«Lestat.» Pronunciai accuratamente il mio nome per lei — Lestat — l’accento tonico sulla seconda sillaba, calcando sulla «t» finale. «Ascolta, nessuno sa di tuo padre. E nessuno lo sco­prirà per un po’. Ho fatto tutto ciò che mi ha chiesto. Ho io le sue reliquie.»

«I libri di Wynken?»

«Ogni cosa, tutto quello che lui considerava sacro... Un’im­mensa fortuna destinata a te e tutti i suoi oggetti che voleva la­sciarti. Devo andare.»

Il rumore dei passi si stava affievolendo? Non ne ero sicuro, ma non potevo correre il rischio di rimanere lì.

«Tornerò appena possibile. Credi in Dio? Aggrappati a quel­lo, Dora, perché potresti benissimo aver ragione su Dio, potresti avere assolutamente ragione!»

Lasciai la stanza come particelle di luce, salendo le scale, uscendo dalla finestra rotta del solaio, e salendo sul tetto, muo­vendomi tanto rapidamente da non sentire nessun rumore di passi. La città sottostante era un affascinante mulinello di luci.

7

Dopo pochi secondi, mi ritrovai nel mio cortile del quartiere francese, dietro la casa di rue Royale, guardando dal basso le fi­nestre illuminate, finestre che erano mie da così tanto tempo, sperando e pregando che David fosse là, e temendo che non ci fosse.

Detestavo scappare da quella Cosa! Dovevo fermarmi per un attimo per far sbollire la mia consueta rabbia. Perché mai dove­vo fuggire? Per non essere umiliato davanti a Dora, che forse non avrebbe potuto vedere niente di più del sottoscritto terrorizzato dalla Cosa e scagliato all’indietro sul pavimento?

Forse lei sarebbe riuscita a vederla!

L’istinto mi diceva che avevo fatto la cosa giusta, me n’ero an­dato e avevo tenuto quella Cosa lontano da Dora. Quella Cosa voleva me. Dovevo proteggere Dora. Adesso avevo un ottimo motivo per combattere la Cosa, per il bene di qualcun altro, non per il mio.

Soltanto in quel momento l’assoluta bontà di Dora assunse una forma precisa nella mia mente e solo allora percepii un’im­pressione completa di lei, svincolata dall’odore del sangue tra le sue cosce e dal suo viso da gufo che mi fissava. I mortali arranca­no attraverso la vita, dalla culla alla tomba. Una volta ogni seco­lo, o forse ogni due, qualcuno si ritrova sulla strada di un essere come Dora. Un’intelligenza raffinata e una distinta concezione del bene, e poi, l’altra caratteristica che Roger aveva cercato di descrivere: il magnetismo, che non si era ancora districato dal groviglio di fede e Sacre Scritture.

La nottata era tiepida e benevola.

I banani nel mio cortile non erano stati toccati dalla gelata dell’inverno e crescevano folti e indolenti come sempre contro i muri di mattoni. L’erba selvatica e la lantana risplendevano nelle aiuole troppo piene, e la fontana, col suo cherubino, emetteva una musica cristallina mentre l’acqua schizzava dalla cornucopia dell’angioletto nella vasca.

New Orleans, profumi del quartiere francese.

Salii di corsa la gradinata sul retro che collegava il cortile alla porta posteriore del mio appartamento.

Entrai, percorrendo con passi pesanti il corridoio, come un uomo in preda a un’evidente e ostentata confusione. Vidi un’om­bra attraversare il salotto. «David!»

«Non c’è.»

Mi bloccai sulla soglia.

Era l’Uomo Comune.

Era in piedi e dava la schiena alla scrivania di Louis sistemata tra le due finestre di facciata, le braccia mollemente intrecciate, il viso che rivelava un intelletto paziente e una sorta d’incrollabile compostezza.

«Non scappare anche stavolta. Ti seguirò. Ti avevo pregato di non coinvolgere la ragazza. Non te l’avevo chiesto, forse? Sta­vo solo cercando di convincerti a tagliar corto», disse senza ran­core.

«Non sono mai scappato davanti a te!» protestai, poco sicuro di me e deciso a far sì che la mia affermazione corrispondesse al vero, da quel momento in poi. «Be’,non proprio! Non ti volevo vicino a Dora. Cosa vuoi?»

«Secondo te, cosa voglio?»

«Te l’ho già detto, se sei venuto per portarmi via, sono pronto ad andare all’inferno», replicai, raccogliendo tutte le mie ener­gie.

«Sei fradicio di sudore di sangue, guardati, sei così spaventa­to. Sai, questo è ciò che sono costretto a fare per comunicare con qualcuno come te.» Il suo tono di voce era equilibrato, chiaramente udibile. «Avrei potuto limitarmi ad apparire una sola vol­ta e dire ciò che dovevo dire. Ma tu, no, quella è tutta un’altra faccenda, hai già trasceso troppe fasi, hai in mano troppi elemen­ti con cui negoziare, ecco perché in questo momento hai un valo­re inestimabile per me.»

«Negoziare? Vuoi dire che posso tirarmene fuori? Non stia­mo per andare all’inferno? Possiamo organizzare un processo di qualche tipo? Posso trovare un abile oratore che perori la mia causa?» Lo dissi in tono sprezzante e impaziente, eppure era la domanda logica per la quale volevo subito una risposta logica.

«Lestat», ribattè col suo tipico modo indulgente, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e facendo un passo calmo ver­so di me. «Risale a David e alla sua visione nel caffè di Parigi. La breve storia che ti ha raccontato. Io sono il Diavolo, e ho bisogno di te. Non sono qui per portarti a viva forza all’inferno, del qua­le, comunque, non sai assolutamente niente. Non è ciò che im­magini. Sono venuto a chiedere il tuo aiuto! Sono stanco e ho bi­sogno di te. Sto vincendo la battaglia, ed è essenziale che non la perda.»

Ero sbalordito.

Per un lungo istante, mi fissò e poi cominciò a cambiare: la sua forma sembrò dilatarsi, scurirsi, le ali sollevarsi ancora una volta come fumo che salga in spire verso il soffitto, il chiacchierio di voci diventò rapidamente assordante, e la luce si levò all’im­provviso dietro di lui. Vidi le sue pelose zampe caprine avvicinarmisi. I miei piedi non avevano nessun posto su cui poggiare, le mie mani niente da toccare se non lui, mentre urlavo. Riuscii a vedere lo scintillio delle piume nere, l’arco formato dalle ali che salivano sempre più in alto! E il chiacchierio sembrò una mesco­lanza di musica quasi squisita e di voci!

«No, non stavolta, no!» Mi scagliai contro di lui. Cercai di af­ferrarlo e vidi le mie dita serrarsi sul suo polso corvino. Fissai il suo viso immenso, il viso della statua di granito, ma adesso ani­mato ed espressivo, l’orripilante frastuono di salmodie, canti e urla che montava e sovrastava le mie parole. Vidi la sua bocca aprirsi, le grandi sopracciglia corrugarsi, gli enormi e innocenti occhi a mandorla diventare immensi e riempirsi di luce.

Rimasi aggrappato a lui con la mano sinistra serrata sul suo braccio possente, sicuro che stesse cercando di staccarsi da me senza riuscirci! Ah! Non ci riusciva! E poi gli sferrai un destro sul viso. Sentii la durezza, la durezza soprannaturale, come se avessi colpito un altro della mia razza. Ma questa non era una so­lida forma vampiresca.