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L’intera figura guizzò, nonostante la sua densità e il suo atteg­giamento difensivo; l’immagine indietreggiò e si raddrizzò e ri­cominciò a ingigantirsi; gli diedi un ultimo violento spintone nel petto con tutta la forza che mi era rimasta, le mie dita allargate sulla sua armatura nera, la scintillante corazza decorata, i miei occhi così vicini in quel primo istante che notai gli intagli che la decoravano, le scritte nel metallo, e poi le ali batterono sopra di me come per spaventarmi. D’un tratto, lui si ritrovò lontano da me, sempre gigantesco, sì, ma l’avevo respinto, dannazione a lui. Era stato davvero un bel colpo. Lanciai un grido di battaglia pri­ma di potermi frenare e mi scaraventai contro di lui, anche se non avrei potuto dire su quale base feci leva e con che forza.

Ci fu un turbinare di piume nere, lucide e scintillanti, e poi cominciai a cadere; non avrei urlato, me ne infischiavo, non l’a­vrei fatto. Stavo cadendo. Precipitando. Come in un abisso che solo un incubo potrebbe restituire. Un vuoto così perfetto che non possiamo concepirlo. E stavo cadendo rapidamente.

Restava solo la luce. La luce cancellò ogni cosa visibile e al­l’improvviso fu così splendida da farmi perdere la percezione delle mie membra o parti corporee od organi o qualunque cosa di cui io sia fatto. Non avevo forma né peso. Solo la velocità della mia caduta continuava a terrorizzarmi, come se rimanesse la gra­vita ad assicurare il totale annientamento. Il brusio delle voci s’innalzò energicamente.

«Stanno cantando davvero!» gridai. Poi rimasi immobile, di­steso. Percepii il pavimento sotto di me. La superficie leggermente ruvida della moquette. Odore di polvere, cera, casa mia. Sapevo che ci trovavamo nella stessa stanza.

Lui aveva preso la sedia della scrivania di Louis, e io ero sdraiato lì, supino, fissando il soffitto, il petto che scoppiava di dolore. Mi misi seduto, incrociai le gambe e lo fissai con aria di sfida.

Era perplesso. «È perfettamente logico», disse.

«Che cosa?»

«Sei forte come uno di noi.»

«No, non credo. Non posso farmi spuntare le ali; non posso evocare la musica», risposi, furibondo.

«Sì che puoi, hai già creato delle immagini per i mortali. Sai di poterlo fare. Li hai imprigionati in incantesimi. Sei forte come noi. Hai raggiunto una fase di sviluppo davvero interessante. Sapevo di aver sempre avuto ragione sul tuo conto. M’ispiri un ti­more reverenziale.»

«Timore di cosa? Della mia indipendenza? Senti, lasciati dire una cosa, Satana o chiunque tu sia.»

«Non usare quel nome, lo odio.»

«Questo probabilmente m’indurrà a disseminarlo in tutti i miei discorsi.»

«Mi chiamo Memnoch», dichiarò tranquillamente, con un piccolo gesto implorante. «Memnoch il Diavolo. Voglio che tu lo ricordi così.»

«Memnoch il Diavolo.»

«Esatto. È così che mi firmo.»

«Bene, lascia che ti dica una cosa, Sua Altezza Reale dell’O­scurità: non intendo aiutarti in nessun caso! Non sono un tuo servitore!»

«Credo che riuscirò a farti cambiare idea», rispose in tono pacato. «Credo che arriverai a capire perfettamente le cose guar­dandole dal mio punto di vista.»

Fui assalito da un’improvvisa debolezza, un totale sfinimento e un senso di disperazione.

Tipico.

Mi misi bocconi e infilai un braccio sotto la testa e cominciai a piangere come un bambino. Stavo morendo di spossatezza. Ero esausto e infelice, e adoravo piangere. Non potevo fare nient’altro, mi abbandonai completamente. Sentii il profondo sollievo di chi è annientato dal dolore. Non m’importava un fico secco di chi poteva vedermi o sentirmi. Piansi come una fontana.

Sapete cosa penso del piangere? Penso che alcune persone so­no costrette a imparare come si fa. Però, una volta che l’hai im­parato, una volta che sai davvero piangere, non c’è niente di me­glio. Mi dispiace per coloro che non conoscono il trucco. È come saper fischiare o cantare.

Comunque sia, ero troppo infelice per trarre vero conforto da quel momentaneo senso di benessere, in un tumulto di tremiti e lacrime salate, chiazzate di sangue.

Ripensai a quel giorno di tanti anni prima, quando ero entrato a Notre-Dame, e quei diabolici piccoli vampiri erano rimasti in agguato ad aspettarmi, Servitori di Satana; pensai al mio io mor­tale, a Dora, all’Armand di quei tempi, l’immortale capo adole­scente degli Eletti di Satana riuniti sotto il cimitero, che si era trasformato in un santo oscuro, inviando i suoi cenciosi bevitori di sangue a tormentare i mortali, a uccidere, a diffondere la pau­ra e la morte come una pestilenza. Ero soffocato dai singhiozzi.

«Non è vero! Non esiste nessun Dio e nessun Diavolo. Non è vero!» credo di aver urlato.

Lui non rispose. Rotolai su me stesso per mettermi seduto. Mi asciugai il viso sulla manica. Niente fazzoletto; certo, l’avevo da­to a Dora. Un tenue effluvio del profumo di Dora si levò dai miei vestiti, dal mio petto contro cui si era posata, dolcezza di sangue. Dora. Non avrei mai dovuto lasciarla in preda a una simile ango­scia. Santo cielo, ero destinato a vegliare sul suo equilibrio mentale! Dannazione.

Lo guardai. Era ancora seduto lì, il braccio posato sulla spal­liera della sedia di Louis, e mi stava osservando.

Sospirai. «Non hai intenzione di lasciarmi in pace, vero?»

Fu colto alla sprovvista e scoppiò a ridere. La sua espressione era cordiale, piuttosto che neutra. «No, certo che no», rispose sottovoce, come se cercasse di non sconvolgermi ulteriormente. «Lestat, ho aspettato per secoli qualcuno come te. Ho tenuto d’occhio proprio te per secoli. No, temo che non ti lascerò in pa­ce. Ma non voglio che tu sia infelice. Cosa posso fare per tranquillizzarti? Un piccolo miracolo, un dono, qualunque cosa, in modo che poi possiamo procedere.»

«E come diavolo procederemo?»

«Ti racconterò tutto, e dopo capirai perché devo assoluta­mente vincere», annunciò, stringendosi leggermente nelle spal­le, le mani aperte.

«Il sottinteso... è che posso rifiutarmi di collaborare con te, giusto?»

«Giustissimo. Nessuno può davvero aiutarmi se non decide spontaneamente di farlo. E sono stanco, stanco del lavoro. Ho bisogno di aiuto. Il tuo amico David ha udito correttamente quando ha sperimentato a Parigi quell’epifania accidentale.»

«L’epifania di David era accidentale? Cosa ne è stato di quell’altra parola? Cos’era... non ricordo. Non era previsto che Da­vid vedesse o sentisse te e Dio che parlavate?»

«È quasi impossibile da spiegare.»

«Ho sconvolto uno dei vostri piani prendendo David, tra­sformandolo in uno di noi?»

«Sì e no. Ma il fatto è che David ha udito correttamente quel­la parte. Il mio compito è arduo e io sono stanco! Alcune delle altre supposizioni di David riguardo a quella visione, be’...» Scosse il capo. «Il punto è che adesso è te che voglio, ed è terri­bilmente importante che tu veda tutto prima di prendere una de­cisione.»

«Sono davvero tanto malvagio, giusto?» sussurrai, le labbra tremanti. Stavo per rimettermi a piangere. «In tutto il mondo, con tutte le cose che gli umani hanno fatto, tutti gli indicibili or­rori che gli uomini hanno inflitto ai loro simili, le inimmaginabili sofferenze di donne e bambini causate dall’umanità nel mondo intero... E io sono così malvagio! Tu vuoi me! David era troppo buono, presumo. Non è diventato crudele come ti aspettavi. È così?»

«No, certo che non sei così malvagio. È proprio questo il punto», rispose in tono rasserenante. Emise di nuovo un lieve sospiro.

Stavo cominciando a notare dettagli più chiari del suo aspet­to, non perché stessero diventando più nitidi, come era successo con Roger, ma perché mi stavo calmando. I suoi capelli erano di un biondo cenere piuttosto scuro, morbidi e ricciuti. E le sue so­pracciglia avevano la stessa tonalità, non proprio nere, niente af­fatto, ma disegnate molto accuratamente per conservare un’e­spressione che non mostrava traccia di vacua vanità o arroganza. E non sembrava nemmeno stupido. Gli abiti erano dozzinali. Dubito che fossero davvero degli abiti. Erano reali, certo, ma la giacca era troppo lineare e priva di bottoni, e la camicia bianca troppo semplice.