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Lui annuì. «Ti do la mia parola d’onore nell’interesse della ra­gazza, ma non devi andare da lei!»

«Lestat, se hai bisogno di me... Se questo essere cerca di prenderti con la forza...» cominciò a dire Armand.

«Perché ti preoccupi per me? Dopo tutte le cose orrende che ti ho fatto. Perché?»

«Oh, non essere così sciocco», m’implorò dolcemente lui. «Tanto tempo fa mi hai convinto che il mondo era un giardino selvaggio. Ricordi la tua vecchia poesia? Hai detto che le uniche leggi valide erano quelle estetiche, che non si poteva contare su nient’altro.»

«Sì, ricordo benissimo tutto. Temo che sia vero. Ho sempre temuto che fosse vero. Lo temevo quand’ero un bambino morta­le. Una mattina, svegliandomi, ho scoperto di non credere in niente», rammentai.

«Be’,in tal caso, nel giardino selvaggio tu risplendi magnificamente, amico mio», ribattè Armand. «Cammini come se il giar­dino fosse tuo, a tua completa disposizione. E nel corso delle mie peregrinazioni torno sempre da te. Torno sempre a vedere i colo­ri del giardino nella tua ombra, oppure riflessi nei tuoi occhi, magari, o a informarmi delle tue più recenti follie e pazze osses­sioni. Inoltre, siamo fratelli, vero?»

«Perché non mi hai aiutato l’ultima volta, quando ero nei guai, avendo scambiato il mio corpo con quello di un essere umano?»

«Non potrai mai perdonarmi, se te lo dico», replicò.

«Dimmelo.»

«Perché speravo e pregavo che tu restassi in quel corpo mor­tale e salvassi la tua anima. Pensavo che ti fosse stato concesso il dono più grande, quello di essere di nuovo umano, e il mio cuore desiderava ardentemente il tuo trionfo! Non potevo interferire. Non potevo.»

«Sei stato puerile e sciocco, lo sei sempre stato.»

Lui si strinse nelle spalle. «Be’,a quanto pare, ti è stata con­cessa un’altra possibilità di fare qualcosa per la tua anima. Ti con­viene sfruttare sino in fondo la tua forza e le tue risorse, Lestat. Non mi fido di questo Memnoch, assai più pericoloso di qualun­que nemico mortale tu abbia affrontato quando eri intrappolato nella carne. Questo Memnoch sembrerebbe molto lontano dal paradiso. Perché mai dovrebbero lasciarti entrare con lui?»

«Ottima domanda.»

«Lestat, non andare da Dora. Non dimenticare che l’ultima volta il mio consiglio avrebbe potuto risparmiarti parecchia infe­licità!» mi mise in guardia David.

Oh, ci sarebbero stati troppi commenti da fare al riguardo, perché il suo consiglio avrebbe potuto impedirgli in eterno di di­ventare ciò che era adesso, con quella forma leggiadra, e non po­tevo, non potevo davvero, rimpiangere che lui fosse lì, che avesse conquistato il trofeo carnale del Ladro di Corpi. Non potevo. Non potevo assolutamente.

«Non stento a credere che il Diavolo ti voglia», dichiarò Ar­mand.

«Perché?» chiesi.

«Ti prego, non andare da Dora», ripetè David, serissimo.

«Devo farlo, e ormai è quasi mattina. Vi voglio bene.»

Entrambi mi stavano fissando, perplessi, sospettosi, incerti.

Feci l’unica cosa possibile: me ne andai.

9

La notte seguente lasciai il mio nascondiglio in solaio e uscii a cercare Dora. Non volevo più vedere né ascoltare David o Armand. Sapevo che nessuno avrebbe potuto impedirmi di fare ciò che dovevo.

Il problema era come intendevo farlo. Mi avevano inconsape­volmente confermato una cosa: non ero pazzo. Tutto quello che mi stava succedendo non era frutto della mia immaginazione. Forse ne stavo immaginando una parte, ma non tutto. Comun­que fosse, decisi di adottare un piano d’azione drastico con Do­ra, un piano che né David né Armand avrebbero mai potuto ap­provare.

Disponendo di qualche informazione in più sulle sue abitudi­ni e sui posti che frequentava, la raggiunsi mentre usciva dallo studio televisivo di Chartres Street, nel quartiere francese. Aveva passato tutto il pomeriggio a registrare il suo show di un’ora, e poi a fare quattro chiacchiere col suo pubblico. Rimasi ad aspet­tare sulla soglia di un negozio vicino mentre salutava l’ultima delle sue «sorelle» o seguaci: erano giovani donne, non ragazze, fermamente convinte di poter cambiare il mondo insieme con lei, e sfoggiavano un’aria disinvolta, anticonformista.

Si allontanarono rapidamente in direzioni opposte, e Dora s’incamminò verso la piazza e la sua macchina. Indossava un at­tillato cappotto di lana nero, una calzamaglia di lana e scarpe dal tacco molto alto, le sue preferite per ballare durante il program­ma; col suo caschetto di capelli corvini sembrava estremamente fragile e vulnerabile in un mondo di maschi mortali.

L’afferrai per la vita prima che potesse rendersi conto di ciò che stava succedendo. Ci sollevammo nell’aria con una tale rapi­dità che sapevo che non poteva vedere o capire nulla, e le sussur­rai all’orecchio: «Sei con me, sei al sicuro». Poi l’abbracciai ben stretta, affinchè non potesse risentire del vento o della velocità a cui stavamo viaggiando, e salii tanto quanto osavo salire con lei, indifesa, vulnerabile e dipendente da me, ascoltando attentamente, al di sotto dell’ululato del vento, per assicurarmi che il suo cuore e i suoi polmoni funzionassero normalmente.

La sentii rilassarsi tra le mie braccia, o, meglio, rimase sempli­cemente fiduciosa. Un fatto sorprendente come qualunque altra sua caratteristica. Aveva affondato il viso nel mio cappotto, come se fosse troppo spaventata per cercare di guardarsi intorno, ma in realtà questo suo atteggiamento aveva soprattutto una funzio­ne pratica, quella di ripararsi dal vento. A un certo punto mi sbottonai il cappotto e coprii Dora con uno dei lembi, e conti­nuammo a volare.

Il viaggio durò più del previsto; non potevo portare un fragile essere umano così in alto nell’aria, tutto qui. Tuttavia non fu af­fatto monotono o rischioso come avrebbe potuto essere se aves­simo preso un jet fumante e puzzolente e altamente esplosivo.

Dopo meno di un’ora mi ritrovai, con lei, appena oltre le por­te di vetro dell’Olympic Tower. Dora si svegliò tra le mie braccia come da un sonno profondo. Capii che era stato inevitabile. Era svenuta, per una serie di motivi fisici e mentali, ma riprese subito i sensi, i suoi tacchi che colpivano il pavimento, e mi guardò con enormi occhi da gufo, poi fissò la fiancata di San Patrizio che svettava in tutta la sua gloria sul lato opposto della strada.

«Vieni, voglio accompagnarti a vedere gli oggetti di tuo pa­dre», la invitai. Ci dirigemmo verso gli ascensori.

Mi seguì rapidamente, con zelo — proprio come i vampiri so­gnano che facciano i mortali, cosa che non succede mai e poi mai —, come se tutto ciò fosse magnifico e non esistesse un solo motivo al mondo per avere paura.

«Non ho molto tempo», aggiunsi. Ci trovavamo nell’ascenso­re, che stava sfrecciando verso l’alto. «C’è un Essere che mi dà la caccia e non so cosa voglia da me. Ma dovevo portarti qui a tutti i costi, e farò in modo che tu torni a casa sana e salva.»

Spiegai che non conoscevo entrate situate sul tetto, in quell’e­dificio; in realtà l’intero fabbricato non mi era affatto familiare, altrimenti l’avrei fatta passare da lassù, e le illustrai il problema, imbarazzato perché avevamo sorvolato un intero continente da costa a costa in un’ora e poi prendevamo un ascensore sferragliante che sembrava solo un po’ meno strabiliante della facoltà vampiresca di volare.

Le porte si aprirono sul piano giusto. Le misi in mano la chia­ve e la guidai verso l’appartamento. «Apri la porta, tutto quello che troverai all’interno è tuo.»

Dora mi guardò per un istante, accigliata, poi si scostò distrat­tamente i capelli arruffati dal vento, infilò la chiave nella serratu­ra e aprì la porta. «Le cose di Roger», sussurrò col primo respiro che fece.

Le riconobbe dall’odore, quelle icone e reliquie, così come avrebbe potuto fare qualunque antiquario. Poi vide l’angelo di marmo, sistemato nel corridoio, davanti alla parete di vetro, e pensai che stesse per svenirmi tra le braccia. Si afflosciò all’indietro, come se fosse sicura che l’avrei afferrata e sorretta. La strinsi con la punta delle dita, temendo come sempre di ferirla inavvertitamente.