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«Santo cielo», mormorò. Il cuore le batteva all’impazzata, ma era sano, giovane e robusto. «Siamo qui, e mi hai detto la ve­rità.»

Si staccò bruscamente da me prima che potessi rispondere, oltrepassò svelta l’angelo ed entrò nella stanza anteriore più am­pia. Le guglie di San Patrizio erano visibili appena sotto il livello della finestra. E dappertutto si vedevano ingombranti colli rive­stiti di strati di plastica attraverso la quale si poteva distinguere la forma di un crocifisso o di un santo. I libri di Wynken si trovava­no sul tavolo, naturalmente, ma non intendevo farle pressioni in proposito, almeno per il momento.

Si voltò verso di me e sentii che mi stava studiando, valutan­do. Sono talmente sensibile a questo tipo di esame che credo davvero che la vanità sia radicata in ogni mia cellula.

Mormorò qualche parola in latino, ma non riuscii ad afferrar­la, e nessuna traduzione automatica mi balenò nel cervello.

«Cos’hai detto?»

«Lucifero, Figlio del Mattino», sussurrò, fissandomi con sin­cera ammirazione. Poi si lasciò cadere su una grande poltrona di pelle. Era una delle tante suppellettili troppo voluminose dell’appartamento, destinata agli uomini d’affari ma decisamente scomoda. I suoi occhi erano ancora fissi su di me.

«No, non è questo che sono. Sono soltanto ciò che ti ho detto e niente di più. Ma è proprio lui che mi sta dando la caccia», spiegai.

«Il Diavolo?»

«Sì. Ora ascoltami, voglio raccontarti tutto e poi devi darmi un consiglio. Nel frattempo...» Mi voltai, sì, lo schedario c’era. «La tua eredità, ogni cosa, denaro che adesso ti appartiene ma di cui non sei a conoscenza, pulito, tassato e perfettamente lecito... è tutto spiegato nei fascicoli che sono in quei raccoglitori neri. Tuo padre è morto desiderando che tu ricevessi queste cose per la tua chiesa. Se adesso le rifiuti, non essere così sicura che que­sta sia la volontà di Dio. Ricorda che tuo padre è morto. Il suo sangue ha mondato il denaro.» Ci credevo? Be’,era sicuramente ciò che Roger voleva che le dicessi. «Roger mi ha chiesto di dir­telo», aggiunsi, cercando di sembrare sicuro di me.

«Ti capisco», rispose lei. «Ti stai preoccupando di una cosa che non ha nessuna importanza, adesso. Vieni qui, ti prego, la­scia che ti abbracci. Stai tremando.»

«Sto tremando?»

«Qui fa caldo, ma a quanto pare non lo senti. Vieni.»

M’inginocchiai davanti a lei e la presi tra le braccia, come ave­vo fatto con Armand. Posai il capo sul suo corpo. Era fredda ma non sarebbe stata mai, neanche nel giorno della sepoltura, fred­da com’ero io, niente di umano poteva essere così freddo. Avevo assorbito il peggio dell’inverno come se fossi stato marmo poro­so, e probabilmente lo ero.

«Dora, Dora, Dora», sussurrai. «Come ti amava e come desi­derava che per te tutto andasse per il meglio, Dora.»

Il suo profumo era forte, ma lo ero anch’io.

«Lestat, raccontami del Diavolo.»

Mi sedetti sulla moquette per poterla guardare. Stava appol­laiata sul bordo della poltrona, il cappotto nero aperto scompo­stamente, e un lembo di sciarpa dorata in bella mostra; il suo viso era pallido ma molto accaldato, in un modo che la faceva sembrare radiosa e allo stesso tempo un po’ incantata, come se non fosse più umana di me.

«Nemmeno tuo padre è riuscito a descrivere adeguatamente la tua bellezza, vergine del tempio, ninfa dei boschi», sospirai.

«Te l’ha detto lui?»

«Sì. Ma il Diavolo, ah, il Diavolo mi ha detto di farti una do­manda. Di chiederti qual è la verità sull’occhio di zio Mickey.» Me n’ero appena ricordato. Mi ero dimenticato di parlarne a Da­vid o ad Armand, ma quale differenza poteva fare?

Rimase stupita e profondamente impressionata a quelle paro­le. Affondò nello schienale della poltrona. «È stato il Diavolo a dirtelo?»

«Lo considera un dono, perché desidera il mio aiuto. Dichia­ra di non essere malvagio. Dice che Dio è il suo avversario. Ti racconterò tutto, ma mi ha dato queste parole come una specie di regalino extra — com’è che lo chiamiamo a New Orleans, lagniappe? — per convincermi che è chi sostiene di essere.»

Lei fece un gesto che rivelava la sua confusione, la mano che scattava verso la tempia mentre scuoteva il capo. «Aspetta. La verità sull’occhio di zio Mickey: sei sicuro che abbia detto così? Mio padre non ti ha parlato di zio Mickey?»

«No, e neanche ho mai captato un’immagine simile nel suo cuore o nella sua anima. Il Diavolo ha detto che Roger non cono­sceva la verità. Cosa significa?»

«Mio padre non la conosceva», confermò. «Non l’ha mai scoperta. Sua madre non gliel’ha mai raccontata. Stiamo parlan­do di suo zio Mickey, il fratello di mia nonna. E sono stati i geni­tori di mia madre a raccontarmi la vera storia; i genitori di Terry. Andò così: la madre di mio padre era ricca e aveva una splendida casa in St. Charles Avenue.»

«Conosco il posto, so tutto al riguardo. È là che Roger ha co­nosciuto Terry.»

«Sì, infatti, ma mia nonna era stata povera, da giovane. Sua madre aveva lavorato come cameriera nel Garden District, come molte ragazze irlandesi. E Mickey, lo zio di Roger, era uno di quei personaggi che non facevano una grande impressione su nessuno. Mio padre non seppe mai niente della vera vita di zio Mickey. Mia nonna me lo raccontò per dimostrarmi quante arie si dava mio padre, quanto fosse stupido, e come fossero umili le sue origini.»

«Sì, capisco.»

«Mio padre aveva voluto bene a zio Mickey, morto quando lui era ragazzo. Mickey aveva il palato spaccato e un occhio di vetro, e ricordo papà che mi mostrava una sua fotografia e mi spiegava come aveva perso l’occhio. Zio Mickey aveva amato i fuochi d’artificio e una volta, mentre stava giocando coi petardi, uno era scoppiato in una lattina che, uam, lo aveva colpito nel­l’occhio. Questa è la storia cui avevo sempre creduto, perché co­noscevo zio Mickey solo dalla foto, e mia nonna e il mio prozio erano morti prima che io nascessi.»

«Giusto. E poi i genitori di tua madre ti raccontarono una storia diversa.»

«Il padre di mia madre era un poliziotto. Sapeva tutto della famiglia di Roger, sapeva che suo nonno era stato un ubriacone, e anche zio Mickey, più o meno. Zio Mickey, da giovane, aveva lavorato per un allibratore, informandolo sul comportamento dei cavalli in allenamento. E una volta intascò il denaro di una scommessa; in altre parole, lo tenne per sé anziché puntarlo co­me avrebbe dovuto fare e, sfortunatamente, il cavallo vinse.»

«Ti seguo.»

«Zio Mickey, molto giovane e molto spaventato, immagino, si trovava nel Corona’s Bar dell’Irish Channel.»

«Oh, certo, a Magazine Street. Quel bar è rimasto aperto per anni e anni. Forse un secolo», intervenni.

«Sì, e gli scagnozzi dell’allibratore vi entrarono e trascinarono zio Mickey nel retro del locale. Il padre di mia madre vide tutto, perché si trovava là, ma non poteva fare niente. Nessuno poteva. Nessuno voleva. Nessuno osava. Ma ecco cosa vide mio nonno. Gli uomini presero a calci e pugni zio Mickey. Furono loro a ro­vinargli il palato tanto da costringerlo a parlare come se avesse qualche difetto congenito. E gli cavarono l’occhio con un calcio e continuarono a prenderlo a calci facendolo rotolare sul pavi­mento. E mio nonno, ogni volta che raccontava l’avvenimento, diceva: ‘Dora, avrebbero potuto salvare l’occhio, solo che quei tizi lo calpestarono. Lo calpestarono deliberatamente con le loro scarpe a punta’.» S’interruppe.