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«E Roger non lo scoprì mai.»

«Tutti quelli che lo sapevano sono morti, ormai», disse. «Tranne me, ovviamente. Mio nonno è morto. Per quanto ne so, chiunque si trovasse nel bar è già morto. Zio Mickey morì all’ini­zio degli anni ‘50. Roger mi portava spesso al cimitero a visitare la sua tomba. Gli aveva sempre voluto bene. Zio Mickey, con la sua voce sepolcrale e il suo occhio di vetro. In un certo senso, tutti gli volevano bene, secondo Roger. E persino i genitori di mia madre lo dicevano. Era un vero tesoro. Lavorò come guar­diano notturno prima di morire. Aveva preso in affitto alcune stanze a Magazine Street, sopra la panetteria Baer. Morì di pol­monite in ospedale ancor prima che qualcuno scoprisse che era malato. E Roger non seppe mai la verità sul suo occhio. In caso contrario ne avremmo parlato, naturalmente.»

Rimasi seduto a riflettere, o, meglio, a rievocare la scena che lei aveva descritto. Dora non trasmetteva nessuna immagine, la sua mente era ben serrata, ma la sua voce era fluita generosa, senza sforzo. Conoscevo il Corona’s, così come lo conosceva chiun­que avesse percorso Magazine Street, in quei famosi isolati del periodo d’oro degli irlandesi. Conoscevo i criminali con le scarpe a punta, quelle che avevano schiacciato l’occhio di zio Mickey.

«Si limitarono a calpestarlo e spappolarlo», spiegò Dora, co­me se riuscisse a leggermi nel pensiero. «Mio nonno ripeteva sempre: ‘Avrebbero potuto salvarlo, se non lo avessero calpesta­to con quelle scarpe a punta’.»

Seguì una pausa di silenzio.

«Questo non prova niente», dichiarai.

«Prova che il tuo amico, o nemico, conosce dei segreti, ecco cosa prova.»

«Ma non dimostra che lui sia il Diavolo e non spiega perché mai dovrebbe scegliere proprio questa storia, tra tutte quelle possibili.»

«Forse si trovava là», ipotizzò lei con un sorriso amaro.

Reagimmo entrambi con una risatina.

«Hai detto che era il Diavolo, ma non era malvagio», mi sollecitò Dora. Sembrava persuasiva e fiduciosa, perfettamente pa­drona di sé. Provai la sensazione di aver fatto la cosa migliore, chiedendole un consiglio. Mi stava fissando intensamente. «Rac­contami cosa ha fatto questo Diavolo», chiese.

Le narrai tutta la storia. Fui costretto ad ammettere di aver pedinato suo padre, e non riuscivo a ricordare se glielo avevo già confessato. Le dissi che il Diavolo mi aveva pedinato in modo si­mile, spiegando ogni cosa proprio come avevo fatto con David e Armand, e mi ritrovai a concludere il racconto con queste scon­certanti parole: «E voglio dirti una cosa su di lui: chiunque sia, ha una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile! Ed è ve­ro. Quando ho usato per la prima volta queste parole per descri­verlo, mi sono salite improvvisamente e inspiegabilmente alle labbra. Non so quale parte della mia mente lo abbia intuito. Ma è vero».

«Ripetilo», chiese.

Lo feci.

Lei scivolò in un silenzio totale. I suoi occhi si ridussero a una fessura e lei rimase seduta con una mano piegata sotto il mento.

«Lestat, sto per farti una richiesta assurda. Ordina del cibo. Oppure trovami qualcosa da mangiare e da bere. Devo riflettere su questa faccenda.»

Mi ritrovai a balzare in piedi. «Tutto ciò che vuoi», dissi prontamente.

«Non ho preferenze. Semplice sostentamento. Non mangio da ieri. Non voglio che i miei pensieri vengano distorti da un di­giuno accidentale. Va’ a prendere del cibo e portamelo. Voglio restare sola, a pregare, a riflettere e a passeggiare avanti e indie­tro tra le cose di papà. Non c’è il rischio che questo demone ven­ga a prenderti prima di quando ha promesso?»

«So solo ciò che ti ho raccontato. Comunque non credo che lo farà. Senti, vado a cercarti qualcosa da mangiare e da bere.»

Mi dedicai subito alla commissione, lasciando l’edificio alla maniera mortale e cercando uno degli affollati ristoranti di midtown in cui comprarle un pasto completo che potesse essere impacchettato e tenuto in caldo fino al mio ritorno. Acquistai per lei parecchie bottiglie di acqua minerale di marca, visto che è ciò che i mortali sembrano amare tanto di questi tempi, e poi, strin­gendo il fagotto, tornai su con tutta calma.

Solo quando l’ascensore si aprì sul nostro piano mi accorsi di come fossero state inconsuete le mie azioni. Il sottoscritto, vec­chio di duecento anni, feroce e orgoglioso per natura, aveva ap­pena fatto una commissione per una ragazza mortale perché lei gliel’aveva chiesto.

Naturalmente c’erano delle attenuanti! L’avevo rapita e por­tata a centinaia di chilometri di distanza! Avevo bisogno di lei. Diavolo, l’amavo.

Tuttavia ecco cosa avevo imparato da questo semplice avveni­mento: Dora aveva il potere, spesso tipico dei santi, di farsi ob­bedire. Senza discutere, ero andato a prenderle da mangiare. Ero uscito allegramente, come se fosse un’attività piacevole.

Portai dentro il cibo e lo posai sul tavolo, per lei.

L’appartamento era invaso dalla mescolanza degli aromi di Dora, incluso quello delle sue mestruazioni, quel particolare san­gue profumato che si raccoglieva tra le sue cosce. L’ambiente respirava insieme con lei.

Ignorai il prevedibile, bruciante desiderio di nutrirmi di lei finché non crollava.

Era seduta in poltrona, china in avanti, le mani intrecciate, e guardava fisso davanti a sé. Vidi che i raccoglitori di pelle nera erano disseminati, aperti, su tutto il pavimento. Sapeva della sua eredità o almeno ne aveva un’idea. Ma non stava studiando quel­lo, e non parve sorpresa dal mio ritorno.

Raggiunse lentamente il tavolo, come se non riuscisse a scuotersi dalle sue fantasticherie. Nel frattempo, frugai nei cassetti della cucina cercando piatti e posate; trovai forchette e coltelli di acciaio inossidabile e un piatto di porcellana. Li posai sul ta­volo e sistemai lì accanto le confezioni di cibo fumante: carne, verdura, roba simile, e una specie d’intruglio dolce, cose che mi risultavano del tutto sconosciute, come sempre, quasi che di re­cente non mi fossi trovato in un corpo mortale e non avessi as­saggiato del cibo vero e proprio. Non volevo ripensare a quell’e­sperienza!

«Grazie», disse, distratta, senza neanche guardarmi. «Sei stato un vero tesoro.» Aprì una bottiglia d’acqua e bevve avida­mente a collo.

Osservai la sua gola mentre lo faceva. Non mi concessi di pen­sare a lei se non con affetto, eppure il suo profumo era sufficien­te per farmi scappare da lì.

Niente scuse, giurai. Se senti di non poter controllare questo desiderio, vattene!

Lei mangiò il cibo con assoluta indifferenza, quasi meccanica­mente, poi alzò gli occhi per guardarmi. «Oh, perdonami, siedi­ti, ti prego. Non puoi mangiare, vero? Non puoi assimilare que­sto tipo di nutrimento.»

«No», confermai. «Ma posso sedermi.» Presi posto accanto a lei, cercando di non fissarla o di annusarne il profumo più del necessario. Guardai, al di là della parete di vetro che avevo da­vanti, il cielo bianco. Non riuscii a stabilire se stesse nevicando, ma era probabile, perché non vedevo altro che il candore. Sì, ciò significava che New York era scomparsa senza lasciare traccia oppure che stava nevicando.

Dora impiegò meno di sei minuti a divorare il pasto. Non ave­vo mai visto nessuno mangiare così in fretta. Impilò tutto e lo portò in cucina. Fui costretto a strapparla dai lavori domestici e a ricondurla nella stanza. Questo mi offrì la possibilità di stringe­re le sue tiepide, fragili mani e di restarle vicino.

«Cosa mi consigli di fare?»

Si sedette per riflettere o per raccogliere le idee. «Credo che tu abbia ben poco da perdere collaborando con questo essere», disse infine. «È evidente che potrebbe distruggerti in qualsiasi momento. Ha parecchi modi per farlo. Hai dormito a casa tua persino dopo aver scoperto che lui, quello che chiami l’Uomo Comune, ne conosceva l’ubicazione. Ovviamente, non lo temi a livello materiale. E nel suo reame sei riuscito a esercitare abba­stanza forza per respingerlo. Cosa rischi aiutandolo? Supponi che sia in grado di portarti in paradiso e all’inferno. È sottinteso che tu puoi ancora rifiutargli il tuo aiuto, vero? Puoi ancora dire, per usare le sue belle parole: ‘Non vedo la situazione dal tuo punto di vista’.»