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«Sì, esiste un Dio, Lestat», rispose. «Siine certo. Forse lo hai pregato così ad alta voce e così a lungo che finalmente ti ha pre­stato attenzione. A volte mi chiedo se non sia quella l’inclinazio­ne di Dio, non sentirci quando piangiamo, chiudere volutamente le orecchie!»

«Vuoi che ti lasci qui o preferisci che ti riporti a casa?»

«Lasciami qui. Non voglio mai più fare un viaggio come quello. Trascorrerò buona parte della mia vita nel tentativo di ram­mentarlo, senza riuscirci. Voglio restare qui a New York con le cose di mio padre. Quanto ai soldi, la tua missione è compiuta.»

«E tu accetti le reliquie, il patrimonio.»

«Sì, naturalmente. Conserverò i preziosi libri di Roger finché non arriverà il momento in cui potranno essere esposti al pubbli­co: il suo amato eretico Wynken de Wilde.»

«Posso fare altro per te?» chiesi.

«Pensi... pensi di amare Dio?»

«Assolutamente no.»

«Perché dici una cosa del genere?»

«Come potrei amarlo?» domandai. «Come potrebbe amarlo chiunque? Cosa mi hai appena detto del mondo? Non capisci? Ormai tutti odiano Dio. Non è che Dio sia morto nel XX secolo. È che tutti lo odiano! Almeno secondo me. Forse è questo che Memnoch sta cercando di dire.»

Era sbalordita; si accigliò per la delusione e il desiderio. Vole­va dire qualcosa. Fece uno strano gesto, come se stesse cercando di prendere dal cielo dei fiori invisibili per mostrarmene la bel­lezza, chissà.

«No, lo odio.»

Lei si fece il segno della croce e giunse le mani.

«Stai pregando per me?»

«Sì», rispose. «Se non ti rivedrò mai più dopo stasera, se non troverò un solo straccio di prova che dimostri che tu esisti davve­ro o sei stato qui con me o che una qualunque di queste cose è stata davvero detta, rimarrò comunque trasformata da te come lo sono ora. Tu rappresenti il mio miracolo. Sei una prova più sbalorditiva di quelle mai concesse a milioni di mortali. Non sei soltanto la prova dell’esistenza del sovrannaturale e del misterio­so e del meraviglioso, sei la prova di ciò in cui credo

«Capisco.» Sorrisi. Era tutto così logico e simmetrico. E veri­tiero. Sorrisi, sorrisi sinceramente, e scossi il capo. «Odio dover­ti lasciare», confessai.

«Vai», rispose, poi serrò i pugni. «Chiedi a Dio cosa vuole da noi!» aggiunse in tono irato. «Hai ragione. Lo odiamo!» La rabbia sfavillò nei suoi occhi, poi si placò, e lei tornò a fissarmi, gli occhi apparentemente più grandi e brillanti perché bagnati di lacrime.

«Addio, mio tesoro», mi congedai. Era tutto così straordina­rio e doloroso.

Uscii, nella neve farinosa che si stava accumulando.

Il portale della cattedrale di San Patrizio era chiuso col chiavi­stello, e io mi fermai ai piedi della gradinata di pietra a guardare verso l’alta Olympic Tower, chiedendomi se Dora potesse veder­mi mentre restavo lì, congelandomi al freddo e lasciando che la neve mi colpisse il viso, dolce, insistente, dolorosamente leggia­dra.

«D’accordo, Memnoch, è inutile aspettare ancora. Vieni su­bito, ti prego, se vuoi», dissi ad alta voce.

Sentii immediatamente i passi! Era come se stessero echeg­giando nel mostruoso vuoto della Quinta Avenue, tra le orrende torri di Babele, e io mi fossi affidato alla tromba d’aria.

Girai più volte su me stesso. Non si vedeva nessun mortale!

«Memnoch il Diavolo!» gridai. «Sono pronto!» Stavo mo­rendo di paura. «Dimostrami che hai ragione, Memnoch. Devi farlo!» urlai.

Il rumore dei passi stava diventando più forte. Oh, lui si stava dedicando a uno dei suoi trucchetti più raffinati.

«Ricorda, devi farmi vedere la situazione dal tuo punto di vi­sta! È questo che mi hai promesso!»

Si stava alzando il vento, ma non avrei saputo dire da dove provenisse. La metropoli sembrava deserta, gelata, la mia tomba. La neve mulinò e si addensò davanti alla cattedrale. La vista delle torri si affievolì.

Sentii la sua voce accanto a me, incorporea e intima: «D’ac­cordo, mio caro, cominceremo subito».

10

Ci trovavamo all’interno della tromba d’aria, in una sorta di tunnel, ma tra noi calò un silenzio in cui riuscivo a udire il mio stesso respiro. Memnoch, le sue braccia serrate sul mio corpo, era talmente vicino a me che riuscivo a vederne il profilo del viso scuro e a sentirne la massa di capelli sfiorarmi il volto. Non era più l’Uomo Comune, bensì l’angelo di granito, le ali così alte da impedirmi di metterle a fuoco e ripiegate intorno a noi per ripa­rarci dal vento.

Mentre ci sollevavamo a ritmo costante, senza la minima trac­cia di gravita, due cose mi risultarono subito evidenti: la prima, che eravamo circondati da un numero indeterminato di anime. Anime, dico! Cosa vidi? Vidi sagome nella tromba d’aria, alcune antropomorfe, altre semplici volti, ma ovunque, intorno a me, c’erano distinte entità spirituali o individui, di cui udivo molto vagamente le voci — sussurri, grida e lamenti — che si mescolava­no al vento. Il suono non poteva più ferirmi, come aveva fatto durante le precedenti apparizioni, ma sentii comunque questa ressa mentre schizzavamo verso l’alto, ruotando come intorno a un asse, il tunnel che si restringeva improvvisamente tanto che le anime parevano toccarci, e poi si ampliava, per restringersi di nuovo poco dopo.

La seconda cosa di cui mi accorsi subito era che l’oscurità si stava diradando oppure qualcosa la stava risucchiando dalla fi­gura di Memnoch. Il suo profilo era luminoso, addirittura traslu­cido, così come i suoi insignificanti indumenti; e le zampe capri­ne del Diavolo scuro erano diventate le gambe di un uomo mas­siccio. In breve, l’intera sagoma vaga e fumosa era stata sostituita da qualcosa di cristallino e riflettente, ma che al tatto risultava elastico, tiepido, vivo.

Alcune parole mi balenarono nella mente, brani delle Sacre Scritture, brandelli di visioni, profezie, poesie; ma non c’era il tempo di valutare, analizzare e imprimere nella memoria.

Memnoch mi parlò con una voce che forse non era tecnicamente udibile, anche se io sentii il familiare eloquio privo di ac­cento dell’Uomo Comune.

«È difficile andare in paradiso senza preparazione, perciò re­sterai sbalordito e confuso da quello che vedrai. Ma se non lo ve­di subito, lo desidererai ardentemente durante tutta la nostra conversazione, quindi ti sto accompagnando verso le sue porte. Sappi che la risata che senti non è una risata. È gioia. Ti sembrerà una risata perché è solo in questo modo che un suono tanto esta­tico può essere captato o percepito fisicamente.»

Non appena ebbe pronunciato l’ultima sillaba, ci ritrovammo in piedi in un giardino, su un ponte che valicava un torrente! Per un attimo la luce m’inondò gli occhi tanto da costringermi a chiuderli, pensando che il sole del nostro sistema solare mi aves­se trovato e stesse per bruciarmi, così come avrei dovuto essere bruciato: un vampiro trasformato in una torcia ardente e annien­tato per l’eternità.

Ma questa luce priva di fonte era penetrante e benevola. Aprii gli occhi e mi resi conto che ci trovavamo di nuovo tra miriadi di altri individui e sulle rive del torrente e, in ogni direzione, vidi esseri che si salutavano, si abbracciavano, conversavano, piange­vano e urlavano di gioia. Anche stavolta le sagome mostravano tutte le diverse gradazioni di nitidezza. Un uomo appariva solido come se lo avessi incontrato in una strada cittadina; un altro sem­brava solo una gigantesca espressione facciale; altri parevano turbinanti brandelli di materia e luce; altri ancora erano completamente diafani. Alcuni sembravano invisibili, solo che io sapevo che erano lì! Era impossibile determinarne il numero.

Il luogo era sconfinato. Le acque del ruscello brillavano di lu­ce riflessa; l’erba del giardino era di un verde così vivido da dare l’impressione che stesse nascendo in quel preciso istante, come in un dipinto o in un filmato!