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Mi aggrappai a Memnoch e mi voltai per osservare la sua nuo­va forma chiara. Adesso era l’esatto contrario dell’angelo scuro sempre più denso, eppure il viso mostrava gli stessi lineamenti marcati della statua di granito, e gli occhi lo stesso dolce cipiglio. Osservate gli angeli e i demoni di William Blake e anche voi lo avrete visto; è al di là dell’innocenza.

«Adesso entriamo», annunciò.

Mi accorsi che mi stavo aggrappando a lui con entrambe le mani. «Vuoi dire che questo non è il paradiso?» gridai, e la voce mi uscì sotto forma di discorso intimo, riservato unicamente a noi due.

«No», rispose, sorridendo e guidandomi lungo il ponte. «Quando entriamo devi essere forte. Devi renderti conto che ti trovi nel tuo corpo legato alla terra, per quanto insolito, e i tuoi sensi saranno sopraffatti! Non riuscirai a sopportare ciò che ve­drai, come invece potresti fare se fossi morto, oppure un angelo, oppure il mio luogotenente, che è quello che voglio tu diventi.»

Non c’era il tempo per discutere. Avevamo percorso il ponte; porte gigantesche si stavano aprendo davanti a noi. Non riuscivo a vedere la sommità dei muri.

Il suono aumentò e ci avviluppò; sembrava davvero una risa­ta, ondate susseguenti di una risata cristallina, solo che era cano­ra, come se tutti coloro che ridevano stessero anche cantando a squarciagola dei cantici.

Ciò che vidi mi sbalordì tanto quanto il suono.

Questo era il luogo più denso, intenso, ricco di attività e splendido che avessi mai visto. Il nostro linguaggio richiede in­numerevoli sinonimi per l’aggettivo «bello»; gli occhi riusciva­no a vedere ciò che la lingua non può assolutamente descrivere.

Ancora una volta c’era gente dappertutto, gente colma di luce e dalla forma umana; avevano braccia, gambe, visi raggianti, ca­pelli, indumenti di ogni tipo, eppure nessun costume sembrava particolarmente importante, e si stavano muovendo, percorren­do dei sentieri in gruppo o da soli, oppure riunendosi, abbrac­ciandosi, stringendosi, allungando le braccia e tenendosi per mano.

Mi voltai a destra e a sinistra, poi ruotai su me stesso, e in ogni direzione vedevo queste moltitudini di esseri, immersi in conver­sazione o dialogo o qualche genere di comunicazione, alcuni che si abbracciavano e si baciavano, altri che ballavano, e i crocchi e capannelli che continuavano a spostarsi e ingrandirsi o rimpic­ciolirsi e ampliarsi.

In realtà, il vero mistero era rappresentato dall’abbinamento di apparenti disordine e ordine. Questo non era caos, non era confusione, non era frastuono; sembrava piuttosto l’ilarità di una grande riunione finale, e con «finale» intendo dire che sembrava una continua soluzione di qualcosa, una miracolosa rivelazione protratta, una riunione e una crescente comprensione, condivisa da tutti i partecipanti mentre si muovevano con rapidità o lan­guidamente (o addirittura, in alcuni casi, restavano seduti a fare ben poco), tra colline e vallate, e lungo sentieri, in aree boschive e dentro edifici che sembravano spuntare l’uno dall’altro, diver­samente da qualsiasi fabbricato io avessi mai visto sulla terra.

Non notai da nessuna parte qualcosa di specificamente dome­stico come una casa o un palazzo. Al contrario, gli edifici erano molto più ampi, colmi di luce brillante come il giardino, con cor­ridoi e scalinate che si diramavano con perfetta fluidità. Eppure, elementi decorativi ricoprivano ogni cosa. Le superfici e le consi­stenze erano talmente variegate che una qualunque di esse avrebbe potuto catturare il mio interesse in eterno.

Non posso spiegare la sensazione che provai, quella di poter osservare tutto simultaneamente. Adesso sono costretto a parlare in sequenza. Devo prendere sezioni di questo ambiente illimitato e magnifico, per poter proiettare la mia fallibile luce sul tutto.

C’erano arcate, torri, saloni, gallerie, giardini, campi immensi, foreste, ruscelli. Le diverse aree fluivano l’una nell’altra, e io le stavo attraversando tutte, con accanto Memnoch che mi stringe­va forte per rassicurarmi. Il mio sguardo veniva attirato ora da una scultura di spettacolosa bellezza, ora da una cascata di fiori, ora da un gigantesco albero proteso nel cielo limpido e azzurro, solo per sentire le sue mani che mi costringevano a voltarmi, co­me se fossi trattenuto su una fune sospesa nel vuoto da cui pote­vo cadere fatalmente.

Risi; piansi; feci entrambe le cose, e il mio corpo fu assalito da convulsioni dovute alle emozioni. Mi aggrappavo a Memnoch e cercavo di guardare al di sopra della sua spalla e dietro di lui, e ruotavo nella sua stretta come un bimbo, voltandomi per incro­ciare lo sguardo di questa o quella persona che mi stava guardan­do o per cercare un momento di stasi mentre i gruppi e gli assembramenti si spostavano e si muovevano.

All’improvviso, ci ritrovammo in un vasto salone. «Dio, se so­lo David potesse vederlo!» gridai. I libri e i rotoli di pergamena erano innumerevoli, e all’apparenza non c’era niente d’illogico o caotico nel modo in cui tutti quei documenti erano aperti e pronti per essere esaminati.

«Non guardare perché non te ne ricorderesti», disse Mem­noch. Mi afferrò la mano come se fossi un bambino. Avevo cer­cato di prendere un rotolo di pergamena che conteneva la stupe­facente spiegazione di un problema legato ad atomi, fotoni e neutrini. Ma aveva ragione. La conoscenza scomparve all’istante, e il giardino ci circondò mentre perdevo l’equilibrio e cadevo ad­dosso a lui. Abbassai gli occhi sul terreno e vidi fiori assoluta­mente perfetti, che erano ciò che i nostri fiori sulla terra potreb­bero diventare! Non conosco altro modo per descrivere come fossero ben realizzati i petali e la parte centrale e i colori. I colori stessi erano così vividi e così elegantemente delineati che all’im­provviso dubitai che il nostro spettro cromatico vi fosse incluso. Voglio dire che non penso che il nostro spettro cromatico rap­presentasse il limite! Credo che vigesse un diverso insieme di regole, oppure si trattava di un ampliamento, la facoltà di distin­guere abbinamenti di colori che non sono chimicamente visibili sulla terra.

Le ondate di risate, canti e conversazioni divennero così forti da sopraffare gli altri miei sensi; mi sentii improvvisamente acce­cato dal suono; eppure la luce stava rivelando ogni prezioso det­taglio.

«Zaffirino!» gridai tutt’a un tratto, cercando d’identificare l’azzurro verdognolo delle grandi foglie che ci circondavano e ondeggiavano delicatamente, al che Memnoch sorrise e annuì, con aria di approvazione, allungando di nuovo una mano per im­pedirmi di toccare il paradiso, nel mio tentativo di afferrare qualcosa della magnificenza che vedevo.

«Ma non posso provocare nessun danno, vero?»

All’improvviso sembrò inconcepibile che qualcuno potesse rovinare qualcosa lì, dalle pareti di quarzo e cristallo con le loro guglie e i loro campanili svettanti ai dolci, morbidi rampicanti che salivano intrecciandosi ai rami d’albero da cui pendevano frutti e fiori splendidi. «No, no, non vorrei mai rovinarlo!» esclamai. Udii distintamente la mia voce, benché le voci di tutti coloro che mi circondavano sembrassero sovrastarla.

«Guarda!» mi esortò Memnoch. «Guardali! Guarda!» E mi ruotò la testa come a impedirmi di rannicchiarmi pavidamente contro il suo petto, fissando invece le moltitudini. E capii che erano riunioni, quelle che stavo vedendo, clan che si radunava­no, famiglie, gruppi di parenti o amici sinceri, esseri con una profonda conoscenza reciproca, creature che condividevano ma­nifestazioni fisiche e materiali simili! E per un audace momento, un audace istante, vidi che tutti quegli esseri, da un capo all’altro di quel luogo sconfinato, erano collegati grazie a una mano, la punta di un dito, un braccio o il tocco di un piede. Che un clan s’infilava nel ventre di un altro, e una tribù si espandeva per diffondersi tra innumerevoli famiglie, e le famiglie si univano per formare nazioni, e che l’intera congregazione era in realtà una conformazione palpabile, visibile e interconnessa! Ciascuno in­fluenzava tutti gli altri; ciascuno, nella propria separatezza, attin­geva alla separatezza di chiunque altro!