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«Sì. Ogni volta che vorrai. Non conosci le Scritture? Non sto sostenendo l’autenticità dei frammenti rimasti e nemmeno del testo originale, ma potrai andare e venire quando vorrai. Non apparterrai a quel luogo finché non verrai redento e non ci vi­vrai. Ma, una volta che sarai dalla mia parte, potrai sicuramente entrare e uscire a tuo piacimento.»

Cercai di capire cosa stava dicendo. Cercai di rievocare le gal­lerie, le biblioteche, le lunghissime file di libri, e mi accorsi che erano diventate inconsistenti; i dettagli stavano svanendo. Riu­scivo a ricordare un decimo di ciò che avevo visto, forse addirit­tura meno. Quello che ho descritto in questo libro è ciò che riu­scii a rammentare allora e che rammento adesso. E avevo visto così tante altre cose!

«Com’è possibile che Dio ci abbia lasciato entrare in paradi­so?» chiesi. Tentai di concentrarmi sulle Scritture, su qualcosa che David mi aveva detto tanto tempo prima sul Libro di Giob­be, qualcosa su Satana che volava qua e là, e Dio che chiedeva, quasi casualmente: ‘Dove sei stato?’ Una spiegazione del bene ha elohim o tribunale celeste...

«Siamo i suoi figli», spiegò Memnoch. «Vuoi che ti racconti subito com’è cominciato tutto, l’intera, autentica storia della creazione e della caduta, oppure preferisci tornare indietro e get­tarti tra le sue braccia?»

«Cosa c’è di più importante?» chiesi, e tuttavia lo sapevo: c’era la comprensione di ciò che Memnoch stava dicendo. Inol­tre, occorreva qualcosa per entrare là! Non potevo semplice­mente andarci, e Memnoch lo sapeva. Potevo scegliere, sì, ma queste erano le alternative: andare con Memnoch oppure torna­re sulla terra. L’ammissione al paradiso non era certo automatica; il suo commento era stato sarcastico, non potevo certo tornare là e lanciarmi tra le braccia di Dio.

«Hai ragione», dichiarò. «E ti sbagli completamente.»

«Non voglio vedere l’inferno!» esclamai all’improvviso. Mi alzai e indietreggiai. Mi guardai intorno. Quello era un giardino incolto, il mio giardino selvaggio, fatto di rampicanti spinosi e al­beri tozzi, di erba selvatica e orchidee abbarbicate ai nodi muschiosi dei rami, di uccelli che sfrecciavano tra le alte ragnatele di foglie. «Non voglio vedere l’inferno!» gridai di nuovo. «Non voglio, no!»

Memnoch non rispose. Sembrava che stesse riflettendo. E poi disse: «Vuoi conoscere la ragione di tutto questo oppure no? Ero così sicuro che volessi scoprirlo, tu fra tutte le creature. Pen­savo che avresti desiderato ogni minima informazione!»

«È così! Certo che voglio saperlo. Ma non... non penso di po­terci riuscire», urlai.

«Posso raccontarti quello che so», spiegò in tono gentile, stringendosi nelle spalle possenti.

I suoi capelli erano più lisci e forti dei capelli umani, forse più spessi e sicuramente più incandescenti. Riuscivo a distinguerne le radici sulla sommità della fronte liscia. Stavano ricadendo si­lenziosamente in una sorta di ordine oppure stavano semplice­mente facendosi meno scarmigliati. La pelle del suo viso era al­trettanto liscia ed elastica, il lungo naso ben disegnato, la bocca larga e carnosa, la mascella dalla linea decisa. Mi resi conto che le sue ali c’erano ancora, ma che ormai era quasi impossibile veder­le. Il disegno formato dalle piume, uno strato di piume dopo l’al­tro, era visibile, ma solo se strizzavo gli occhi e cercavo di distin­guerne i dettagli contro uno sfondo scuro alle sue spalle, come quello rappresentato dalla corteccia dell’albero.

«Non riesco a ragionare!» mi lagnai. «Vedo cosa pensi di me, pensi di aver scelto un codardo! Pensi di aver commesso un terribile errore. Ma cerca di capire, non riesco a ragionare. Io... io l’ho visto. Ha detto: ‘Non saresti mai mio nemico, vero?’ Tu mi stai chiedendo di diventarlo. Mi hai portato da Lui e poi lon­tano da Lui.»

«Come Lui stesso mi ha consentito di fare!» ribattè Mem­noch con un lieve arcuarsi delle sopracciglia.

«È così?»

«Certo.»

«Allora perché mi ha supplicato? Perché aveva quell’aspet­to?»

«Perché era Dio Incarnato, e Dio Incarnato soffre e sente le cose con la sua forma umana, e perciò ti ha concesso quel tanto di sé, tutto qui! Soffrendo! Ah, soffrendo!» Alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. Si accigliò, con aria pensierosa. Il suo viso, in questa forma, non poteva apparire irato o contorto da un’emo­zione negativa. Blake era riuscito a guardare all’interno del para­diso.

«Ma era Dio», sussurrai.

Lui annuì, voltando la testa di lato. «Ah, sì, il Signore Viven­te», disse stancamente. Guardò in lontananza, verso gli alberi. Non sembrava arrabbiato, impaziente o stanco. Ancora una vol­ta, mi chiesi se potesse esserlo. Capii che stava ascoltando dei ru­mori nel giardino, e li udii anch’io.

Riuscivo a sentire l’odore delle cose: animali, insetti, l’ine­briante profumo dei fiori della giungla, quei fiori surriscaldati, che una foresta pluviale può nutrire sia nei suoi recessi più profondi sia tra le sue vette frondose. All’improvviso captai l’o­dore degli umani. C’era della gente in quella foresta. Ci trovava­mo in un luogo reale.

«C’è qualcun altro qui», constatai.

«Sì», disse, sorridendomi molto teneramente. «Non sei un codardo. Devo raccontarti tutto oppure lasciarti semplicemente andare? Adesso sai più cose di quelle che milioni di persone riescono a intravedere in tutta una vita. Non sai cosa fartene di quella conoscenza o come continuare a esistere o essere ciò che sei... ma hai sperimentato la tua fugace visione del paradiso. De­vo lasciarti andare? Oppure vuoi sapere come mai ho tanto biso­gno di te?»

«Sì, voglio saperlo», dichiarai. «Ma soprattutto, più di qualsiasi altra cosa, voglio sapere come noi due possiamo restare qui l’uno accanto all’altro, avversari, e come fai ad avere quell’aspet­to ed essere il Diavolo, e come... e come...» Scoppiai a ridere. «...e come faccio ad avere questo aspetto ed essere il demone che sono stato! Ecco cosa voglio sapere. Nel corso della mia esistenza non ho mai visto infrangere le leggi estetiche del mondo. Bellezza, ritmo, simmetria: sono le uniche leggi che mi siano mai sembrate naturali. E le ho sempre chiamate il giardino selvaggio! Perché sembravano spietate e insensibili davanti alla sofferen­za... Davanti alla bellezza della farfalla intrappolata nella ragna­tela! Davanti all’animale riverso nel veldt sudafricano col cuore che batte ancora mentre i leoni leccano la ferita nella sua gola.»

«Sì, capisco benissimo, e rispetto la tua filosofia. Le tue paro­le sono le mie», assentì.

«Ma ho visto qualcosa di più, lassù!» esclamai. «Ho visto il paradiso. Ho visto il giardino redento, non più selvaggio!» Rico­minciai a piangere.

«Lo so, lo so», mormorò, cercando di consolarmi.

«D’accordo.» Mi raddrizzai di nuovo, vergognandomi. Mi frugai nelle tasche, trovai un fazzoletto di lino e mi ci asciugai il viso. Il lino aveva lo stesso profumo della mia casa di New Orleans, dove giacca e fazzoletto erano rimasti fino al tramonto di quella sera, quando li avevo tolti dall’armadio per poi andare a rapire Dora per la strada.

Era successo quella sera? Non ne avevo idea. Mi premetti il fazzoletto sulla bocca. Sentii l’odore della polvere, del terriccio e del tepore di New Orleans. Mi tamponai le labbra. «D’accor­do!» dichiarai, senza fiato. «Se non sei completamente disgusta­to da me...»

«Certo che no!» m’interruppe educatamente, come avrebbe potuto fare David.

«Allora raccontami la storia della creazione. Raccontami tut­to. Avanti! Parla! Io...»

«Sì?»

«Io devo saperlo!»

Si alzò in piedi, si tolse qualche filo d’erba dall’ampia tunica e annunciò: «È questo che stavo aspettando. Ora possiamo davvero cominciare».

11

«Passeggiamo nella foresta mentre parliamo, se non ti dispia­ce», propose.