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«E gli umani che credevano in loro, quelli che veneravano gli antenati, percepivano la loro presenza? La captavano? Sospetta­vano che gli antenati fossero ancora lì, in forma spirituale?» chiesi.

«Sì», mi rispose lui.

Ero troppo assorbito dalla questione per poter aggiungere al­tro. Sembrava che la mia coscienza fosse inondata dall’odore del bosco e da tutti i suoi colori scuri, le variazioni infinitamente ric­che di marrone, oro e rosso cupo che ci circondavano. Alzai gli occhi verso il cielo, verso la brillante luce fratta, grigia e cupa, eppure maestosa. Ma tutto quello su cui riuscivo a meditare, a ri­flettere, era la tromba d’aria e le anime che ci avevano circondato al suo interno, come se l’aria che saliva dalla terra al paradiso fos­se piena di anime umane. Anime che vagavano in eterno. Dove si va in una simile oscurità? Cosa si cerca? Cosa si può capire? Memnoch stava ridendo? Il suono era fioco e dolente, intimo e colmo di dolore. Forse stava cantando sommessamente, come se la melodia rappresentasse una naturale emanazione dei suoi pen­sieri. Sgorgava dalle sue riflessioni così come il profumo si leva dai fiori; era un canto, il suono degli angeli.

«Memnoch», lo chiamai. Sapevo che stava soffrendo ma non potevo sopportare oltre. «Dio ne era a conoscenza? Sapeva che gli uomini e le donne avevano sviluppato essenze spirituali? Sa­peva, Memnoch, delle loro anime?»

Lui non rispose.

Sentii di nuovo quel suono flebile, il suo canto. Anche lui sta­va fissando il cielo, e adesso cantava più distintamente, un canti­co cupo, estraneo alla nostra musica più coerente e articolata, eppure colmo di eloquenza e di dolore.

Osservai le nubi che si muovevano sopra di noi, più massicce e bianche di qualunque nube io avessi mai visto. La bellezza del­la foresta eguagliava ciò che avevo visto in paradiso? Impossibile rispondere. Ma ciò che sapevo con assoluta certezza era che la vi­sione del paradiso non l’aveva fatta sembrare meno notevole, al confronto! Ed era questa la cosa strana. Questo giardino selvag­gio, questo possibile Eden, questo antico luogo era miracoloso in sé e per sé, pur con tutti i suoi limiti. All’improvviso, trovai insopportabile il fatto di continuare a guardarlo, di vederne le foglioline che fluttuavano verso il basso, d’innamorarmene, senza avere una risposta alla mia domanda. Niente, in tutta la mia vita, sembrava altrettanto cruciale.

«Dio sapeva delle anime, Memnoch? Lo sapeva?» insistetti.

Lui si voltò a guardarmi. «Come avrebbe potuto non saperlo, Lestat?» rispose. «Come avrebbe potuto non saperlo? E chi credi sia volato fino alle vette del paradiso per dirglielo? Ed era mai stato stupito, colto alla sprovvista, ampliato o sminuito, illu­minato od oscurato da qualunque cosa io avessi mai sottoposto alla sua eterna e onnisciente attenzione?» Sospirò di nuovo e parve sull’orlo di un terribile scoppio d’ira, che avrebbe fatto im­pallidire tutti i precedenti; ma poi riassunse un’espressione tran­quilla e meditabonda.

Continuammo a camminare. La foresta mutava, alberi gigan­teschi lasciavano il posto a specie più sottili che si ramificavano in modo aggraziato; qua e là spiccavano chiazze d’erba alta, ondeggiante. La brezza aveva il profumo dell’acqua. La vidi solle­vare i capelli biondi di Memnoch, pesanti com’erano, e lisciarli, scostandoglieli dal viso. La sentii rinfrescarmi la testa e le mani, ma non il cuore.

Ammirammo uno spazio aperto, una vallata profonda e sel­vaggia. Vidi montagne lontane e verdi pendii, un bosco dai con­torni frastagliati e irregolari, che qua e là lasciava il posto al fru­mento mosso dal vento o a qualche altro tipo di grano selvatico. Il bosco s’inerpicava sulle colline e sulle montagne, affondando le sue radici nella roccia; e mentre ci avvicinavamo alla vallata, attraverso gli alberi, vidi lo scintillio e la luce guizzante di un fiu­me o del mare.

Uscimmo dalla foresta più antica. Questo era un terreno me­raviglioso e fertile. Fiori gialli e azzurri crescevano a profusione, catturati da una parte e dall’altra in danzanti lampi di colore. Gli alberi erano ulivi e piante da frutto, e sfoggiavano i rami bassi e contorti tipici delle piante da cui il nutrimento veniva ricavato da parecchie generazioni. La luce del sole si riversava su tutto questo.

Camminammo tra erbe alte — forse grano selvatico — fino al margine dell’acqua, là dove sciabordava molto delicatamente senza marea, credo, ed era limpida e scintillante mentre si ritira­va, mostrando lo straordinario assortimento di ciottoli e sassi.

Non riuscii a vedere, né a destra né a sinistra, dove questo specchio d’acqua avesse fine, però riuscivo a scorgere la riva op­posta e le colline che digradavano verso di essa, quasi fossero vi­ve come le radici dei solitari alberi verdeggianti. Mi voltai. Il pae­saggio che adesso avevamo alle spalle era identico: colline roc­ciose, che alla fine diventavano montagne, con chilometri e chilometri di pendii scalabili, macchie di alberi da frutto, nere im­boccature di caverne.

Memnoch non disse nulla. Era ferito e triste; stava fissando le acque sottostanti e il lontano orizzonte dove le montagne sem­bravano imprigionare le acque, solo per essere costrette a lasciar­le scorrere oltre, là dove non potevamo vederle.

«Dove siamo?» chiesi dolcemente.

Lui prese tempo, prima di rispondere. Poi disse: «Le Rivela­zioni dell’evoluzione, per il momento, sono terminate. Ti ho rac­contato ciò che ho visto; solo un vago contorno di tutto ciò che saprai dopo essere morto. Ciò che rimane adesso è il cuore della mia storia, e mi piacerebbe narrartelo qui, in questo splendido luogo, benché gli stessi fiumi siano da tempo scomparsi dalla ter­ra, così come gli uomini e le donne che vi erravano in quell’epo­ca. Ma lascia che soddisfi la tua curiosità su questo luogo: è qui che Lui alla fine mi scaraventò, scacciandomi dal paradiso. Qui è dove sono caduto».

12

«Dio disse: ‘Aspetta!’ Così mi ritrovai bloccato accanto alle por­te del paradiso, insieme con tutti i miei compagni, gli angeli che di solito si recavano sulla terra come me, e anche altri, come Mi­chele, Gabriele e Uriel.

«‘Memnoch, mio accusatore’,continuò Dio, e le parole ven­nero pronunciate con la consueta gentilezza e accompagnate da un fulgore di luce. ‘Prima di entrare in paradiso e iniziare la tua diatriba, scendi sulla terra a studiare con attenzione e con rispet­to tutto ciò che hai visto — mi riferisco al genere umano —, in mo­do da tornare da me solo dopo esserti concesso ogni possibilità di capire e ammirare tutto ciò che ho fatto. Adesso ti dico che il genere umano è parte della natura, e soggetto alle sue leggi. Nes­suno, se non io, dovrebbe capirlo meglio di te. Ma ora va’,osser­va di nuovo, da solo. Allora, e soltanto allora, indirò in paradiso un’assemblea di tutti gli angeli, di tutti i ranghi e tutti i talenti, e ascolterò ciò che hai da dire. Conduci con te coloro che cercano le tue stesse risposte e lasciami gli angeli che non si sono mai preoccupati, né accorti, né curati di nulla se non di vivere nella mia luce.’» Memnoch s’interruppe.

Costeggiammo lentamente la riva dello stretto mare fino ad arrivare là dove alcuni massi formavano un posto ideale per se­dersi e riposare. Non provavo stanchezza in senso fisico, ma il cambiamento di posizione parve affinare i miei sensi, acuire la mia concentrazione e la mia ansia di ascoltare le sue parole. Lui si sedette accanto a me, si girò verso sinistra per guardarmi e an­cora una volta le sue ali svanirono; ma prima si sollevarono e si stesero, quella sinistra molto al di sopra della mia testa: la loro apertura complessiva mi sbalordì. Poi scomparvero. Non c’era posto per loro quando Memnoch si sedeva, o almeno non abba­stanza spazio perché potessero ripiegarsi dietro di lui.