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«Continua.»

Scoppiò a ridere. «Credi forse che io intenda fermarmi pro­prio adesso?»

«Non lo so», risposi, confuso. «Qual è il mio ruolo in tutto questo? Non mi riferisco a me, Lestat de Lioncourt, ma a ciò che sono... al vampiro che sono.»

«Sei un fenomeno legato alla terra, proprio come un fanta­sma. Ci arriverò fra un attimo. Quando Dio ci mandò sulla terra per osservare, in particolare il genere umano, nutrivamo la stessa curiosità nei confronti dei vivi e dei morti... la ghirlanda di anime che riuscivamo a vedere e sentire, riunita intorno al mondo, e che chiamammo subito Sheol perché ci sembrò che il regno di queste anime piangenti fosse il regno della tristezza pura. Sheol significa tristezza.»

«E lo spirito che creò i vampiri...»

«Aspetta. È semplicissimo, lascia però che te lo esponga così come l’ho capito io. Altrimenti, come potresti capire la mia posi­zione? Quello che ti chiedo — diventare il mio luogotenente — è talmente intimo e assoluto che non puoi comprenderlo sino in fondo, se non ascolti.»

«Continua, ti prego.»

«D’accordo. Un gruppo di angeli decise di venire con me, di avvicinarsi il più possibile alla materia in modo che potessimo unire tutta la nostra conoscenza, in modo da capire meglio, co­me Dio ci aveva chiesto di fare. Michele venne con me, insieme con una schiera di altri arcangeli; c’erano alcuni serafini, alcuni ophanim e alcuni membri degli ordini più bassi che sono gli an­geli meno intelligenti, ma sempre angeli, profondamente inna­morati del creato e curiosi di scoprire cosa mi rendeva così furi­bondo con Dio. Non so dirti in quanti fossimo. Comunque, quando raggiungemmo la terra, ci allontanammo in direzioni di­verse, per percepire tutto il possibile, e spesso ci riunivamo per discutere di ciò che avevamo visto. Ci accomunava l’interesse per l’affermazione di Dio secondo cui l’umanità era parte della natura. Non riuscivamo a capire come potesse essere vero, per­ciò ci dedicammo all’esplorazione. Appresi in fretta che ormai uomini e donne vivevano in grandi gruppi, in modo molto diver­so dagli altri primati, che si dipingevano il corpo con vari colori, che spesso le donne vivevano separate dagli uomini, e che crede­vano in qualcosa d’invisibile. Ora, di cosa si trattava? Erano le anime degli antenati, i cari estinti ancora prigionieri nell’aria del­la terra, privi di corpo e confusi? Sì, ma gli umani veneravano an­che altre entità. Immaginavano un Dio che aveva creato le bestie selvatiche e gli sacrificavano animali sugli altari, pensando che questo aspetto di Dio Onnipotente fosse una personalità dai li­miti molto precisi e piuttosto facile da compiacere o irritare. Non posso dire che per me questa fosse una grossa sorpresa; in­fatti ne avevo notati i prodromi. Dopotutto, ti ho condensato mi­lioni di anni nelle mie rivelazioni. Eppure quando mi avvicinai a questi altari, quando sentii la specifica preghiera rivolta al Dio degli animali selvatici, quando cominciai a vedere l’accuratezza e il carattere deliberato del sacrificio — l’uccisione di un montone o di un cervo —, rimasi profondamente colpito dal fatto che non solo questi umani fossero giunti a somigliare agli angeli, ma aves­sero anche intuito la verità. L’avevano compresa istintivamente! Esisteva un Dio. Lo sapevano. Ignoravano come fosse, ma ne in­tuivano l’esistenza. E questa conoscenza istintiva sembrava sca­turire dalla stessa essenza da cui sgorgavano le loro anime spiri­tuali capaci di sopravvivere. Lascia che mi spieghi ancora me­glio. La coscienza di sé e la consapevolezza della propria morte avevano creato negli umani un senso di netta individualità, che temeva la morte e l’annientamento! Lo constatavano, sapevano cos’era, lo vedevano accadere. E pregavano per un Dio disposto a impedire che una cosa simile avesse un significato nel mondo. Ed era questa stessa tenacia — la tenacia di questa individualità — a far sì che l’anima umana sopravvivesse dopo aver lasciato il corpo, imitandone la forma, tenendosi insieme, per così dire, ag­grappandosi in un certo senso alla vita, perpetuandosi, plasman­dosi in base all’unico mondo che conosceva.»

Non parlai. Ero completamente assorbito dalla narrazione e desideravo solo che lui continuasse. Pensai a Roger; pensai mol­to distintamente a Roger perché era l’unico fantasma che avessi mai conosciuto, e ciò che Memnoch aveva appena descritto era una versione di Roger ben chiara e determinata.

«Oh, sì, proprio così, e forse questo è il motivo per cui è una fortuna che lui sia venuto da te, anche se all’epoca l’ho conside­rata una delle peggiori seccature che potesse capitare», precisò Memnoch.

«Non volevi che Roger venisse da me?»

«Ho osservato, ho ascoltato e sono rimasto sbalordito, pro­prio come te, ma mi era già successo con altri fantasmi prima di lui. Non è stato poi così straordinario; comunque, no, non era sicuramente una cosa orchestrata da me, se è questo che intendi.»

«Ma è accaduto quasi in contemporanea con la tua compar­sa! I due avvenimenti mi sono sembrati collegati!»

«Davvero? Qual è il nesso? Cercalo dentro di te. Non pensi che i morti abbiano già cercato di parlare? Non pensi che i fanta­smi delle tue vittime ti abbiano inseguito, ululando? Certo, i fan­tasmi delle tue vittime di solito spirano in uno stato di beatitudi­ne e confusione totali, senza percepirti come lo strumento della loro morte; ma non sempre succede così. Forse ciò che è cambia­to sei tu! E, come ben sappiamo, volevi bene a questo mortale, a Roger, lo ammiravi, capivi la sua vanità e il suo amore per il sa­cro, il misterioso e il costoso, perché hai i suoi stessi tratti caratterali.»

«Sì, è tutto vero, indubbiamente», ammisi. «Ma continuo a pensare che tu abbia avuto qualcosa a che fare con la sua venu­ta.»

Rimase scioccato. Mi guardò per un lungo istante come se stesse per arrabbiarsi, poi scoppiò a ridere. «Perché?» doman­dò. «Perché mai dovrei preoccuparmi di una simile apparizio­ne? Sai cosa ti sto chiedendo! Sai cosa significa! La rivelazione mistica o quella teologica non ti sono del tutto ignote. Lo sapevi, quand’eri vivo... il ragazzo che, in Francia, si rese conto di poter morire senza scoprire il significato dell’universo e corse dal prete del villaggio per chiedere a quel poveretto: ‘Credete in Dio?’»

«Sì, solo che è successo tutto nello stesso momento. E quan­do sostieni che non esiste nessun legame, io, be’... non ci credo», ribattei.

«Sei la creatura più dannata del mondo! Davvero!» rispose. La sua esasperazione era tenue e paziente, ma comunque degna di questo nome. «Lestat, non capisci che quello che ti ha spinto verso la complessità di Roger e di sua figlia Dora è la stessa cosa che mi ha portato da te? Eri arrivato al punto di protenderti ver­so il sovrannaturale. Stavi implorando il paradiso di distruggerti! Il fatto di prendere David ha forse rappresentato il tuo primo passo verso l’assoluto pericolo morale! Sei riuscito a perdonare te stesso per aver creato la vampira bambina, Claudia, solo per­ché eri giovane e stupido. Ma trasformare David in un vampiro, contro la sua volontà! Prendere la sua anima e renderla vampiresca! Quello è stato il più orrendo dei crimini. Quello è stato un crimine che grida vendetta, per l’amor di Dio. Proprio David, cui un giorno avevamo permesso d’intravederci, tanto eravamo interessati a lui e alla strada che avrebbe potuto imboccare.»

«Ah, quindi l’apparizione a beneficio di David fu delibera­ta.»

«Credevo di avertelo già detto.»

«Ma Roger e Dora rappresentavano un ostacolo banale.»

«Sì. Ovviamente tu hai scelto la vittima più brillante e affascinante! Hai scelto un uomo che nel suo lavoro — l’attività crimina­le, il racket, il furto — dimostrava la stessa abilità che dimostri tu nell’essere ciò che sei. Fu un passo audace. La tua fame sta au­mentando e diventa sempre più pericolosa per te e per chi ti cir­conda. Non prendi più i reietti, i miserabili e i tagliagole. Quan­do ti sei proteso verso Roger, ti sei proteso verso il potere e la glo­ria, e allora?»