«Sono combattuto», sussurrai.
«Perché?»
«Perché ti voglio bene, e questa è una cosa cui bado sempre, come entrambi sappiamo», risposi. «Sono attratto da te. Voglio sapere cos’altro hai da dirmi! Eppure penso che tu stia mentendo su Roger. E su Dora. Penso che sia tutto collegato. E quando ripenso a Dio Incarnato...» M’interruppi, incapace di continuare. Fui inondato dalle sensazioni provate in paradiso, o, meglio, da quello che riuscivo ancora a rammentare, a sentire, e il respiro mi lasciò immerso in una tristezza molto più grande di quella che avevo mai espresso con le lacrime. Chiusi gli occhi e quando li riaprii mi accorsi che Memnoch mi stava stringendo le mani. Le sue erano tiepide, molto forti e lisce — quanto dovevano sembrargli fredde le mie —; erano mani molto grandi, perfette, mentre le mie erano... erano le mie strane, bianche, snelle mani scintillanti. Nel sole le mie unghie brillavano come ghiaccio, come sempre.
Lui si ritrasse, e fu una cosa straziante. Le mie mani rimasero rigide, serrate, sole.
In piedi a qualche metro da me, Memnoch contemplava lo stretto mare e mi dava la schiena. Le sue ali erano visibili, enormi, e si muovevano nervosamente, come se una tensione interna lo costringesse a far lavorare l’invisibile apparato muscolare cui erano fissate. Appariva perfetto, irresistibile e disperato.
«Forse Dio ha ragione!» disse a voce bassa ma irata, fissando non me bensì il mare.
«A che proposito?» Mi alzai.
Lui evitava di guardarmi.
«Memnoch, continua, ti prego. Ci sono momenti in cui temo di crollare sotto il peso delle cose che mi stai rivelando. Ma continua. Per favore, per favore, continua.»
«Questo è il tuo modo di scusarti, vero?» chiese gentilmente. Si voltò a guardarmi. Le ali sparirono. Si avvicinò a me, mi oltrepassò e si sedette di nuovo alla mia destra. La sua tunica era orlata di polvere raccolta da terra. Assimilai quel dettaglio ancor prima di pensarci davvero. Un minuscolo frammento di foglia, una foglia verde, era imprigionato nel suo lungo e fluttuante groviglio di capelli.
«No, non proprio, non intendevo scusarmi. Di solito dico esattamente quello che penso», dissi.
Studiai il suo viso... il profilo scolpito, l’assoluta mancanza di peli su una pelle che per il resto sembrava umana. Indescrivibile. Se vi girate a guardare una statua in una chiesa rinascimentale e vedete che è più grande di voi e che è perfetta, non vi spaventate perché è di pietra. Ma questa era viva.
Si voltò come se si fosse accorto solo allora che lo stavo fissando. Mi guardò negli occhi. Poi si piegò in avanti, gli occhi limpidissimi e colmi di una miriade di colori, e sentii le sue labbra, lisce, umide, toccarmi la guancia. Percepii un bruciante guizzo di vita attraversare la dura freddezza del mio essere. Sentii una fiamma impetuosa che inglobava ogni mia particella, come solo il sangue riesce a fare, sangue vivente. Provai una fitta al cuore. Forse mi posai un dito sul petto, in quel punto preciso.
«Tu cosa senti?» chiesi, rifiutandomi di mostrarmi distrutto.
«Sento il sangue di centinaia di creature», sussurrò. «Sento un’anima che ha conosciuto un migliaio di anime.»
«Conosciuto o distrutto?»
«Vuoi scacciarmi solo perché odi te stesso? Oppure posso continuare con la mia storia?»
«Ti prego, ti prego, continua.»
«L’uomo aveva inventato o scoperto Dio», spiegò. Adesso la sua voce era pacata e aveva riacquistato un tono didascalico, educato, quasi modesto. «E in alcuni casi le tribù veneravano più divinità, che presumevano avessero creato questa o quella parte del mondo. Inoltre gli umani sapevano che le anime dei morti sopravvivevano; infatti si protendevano verso di loro e facevano offerte. Portavano doni sulle loro tombe. Invocavano queste anime, le supplicavano di aiutarli nella caccia, o durante la nascita di un bambino, o in qualunque altro evento. E mentre noi angeli sbirciavamo all’interno di Sheol, mentre vi entravamo, invisibili, senza che la nostra essenza causasse interferenze in un regno che a quel punto era costituito unicamente da anime... anime e nient’altro che anime... ci rendemmo conto che queste traevano la forza per sopravvivere dalle attenzioni di quanti vivevano sulla terra, dall’amore inviato loro dagli umani, dalle menti umane che pensavano a loro. Era un processo ininterrotto. E proprio come accadeva per gli angeli, queste anime erano individui caratterizzati da vari livelli d’intelletto, interesse o curiosità. Ospitavano anche tutte le emozioni umane, benché in molti di loro, misericordiosamente, ogni emozione si stesse affievolendo. Alcune anime, per esempio, sapevano di essere morte ma cercavano di rispondere alle preghiere dei figli, tentando di consigliarli, parlando con tutta l’energia che riuscivano a radunare in una voce spirituale. Si sforzavano di apparire ai figli. Talvolta riuscivano ad arrivare dall’altra parte per fugaci momenti, attirando a sé turbinanti particelle di materia con la mera forza della loro essenza invisibile. Altre volte si manifestavano nei sogni, quando l’anima dell’umano addormentato si apriva ad altre anime. Raccontavano ai figli dell’amarezza e dell’oscurità della morte, e li esortavano a essere coraggiosi e forti nella vita. Li consigliavano. E, almeno in alcune occasioni, davano l’impressione di sapere che la fede e l’attenzione di figli e figlie le rendevano più forti. Chiedevano offerte e preghiere, ricordavano ai figli quale fosse il loro dovere. Queste anime erano, fino a un certo punto, le meno confuse, se non fosse stato per un particolare: credevano di aver visto tutto quello che c’era da vedere.»
«Nessuna traccia del paradiso?» chiesi.
«No, e nessuna luce proveniente dal paradiso penetrava a Sheol, né musica di sorta. Da Sheol si vedevano solo il buio, le stelle, e la popolazione della terra.»
«Insopportabile.»
«No, se pensi di essere un dio per i tuoi figli e riesci ancora a trarre energia dal semplice spettacolo delle libagioni versate sulla tua tomba. No, se provi riconoscenza verso quanti ascoltano il tuo consiglio e rabbia verso coloro che non lo fanno, e no, se occasionalmente riesci a comunicare, talvolta con risultati spettacolari.»
«Capisco. E ai loro figli sembravano dei.»
«Dei ancestrali; non il creatore di tutto. Gli esseri umani avevano idee ben precise su entrambe le cose, come ho già detto. Rimasi affascinato dall’intera questione di Sheol. Alcune di queste anime non sapevano di essere morte, sapevano soltanto di essere smarrite, cieche e infelici, e piangevano di continuo, come neonati. Erano talmente deboli che non penso nemmeno che percepissero la presenza di altre anime. Altre ancora erano palesemente vittime di un’illusione. Si credevano ancora vive! Assillavano i loro congiunti, tentando invano di farsi ascoltare dal figlio o dalla figlia ignari, quando naturalmente i loro familiari non potevano sentirle né vederle; e queste, queste, che pensavano di essere ancora vive, be’,non avevano la presenza di spirito di attirare a sé la materia per poter apparire ai vivi o d’introdursi nei loro sogni, perché non sapevano di essere morte.»
«Capisco.»
«Alcune anime sapevano di essere dei fantasmi quando raggiungevano i mortali. Altre credevano di essere vive e che il mondo intero si fosse rivoltato contro di loro. Altre ancora andavano alla deriva, vedendo e sentendo i suoni prodotti da altri esseri viventi, ma restandone lontane e distaccate, come se fossero immerse nel torpore o in un sogno. E alcune anime morivano. Davanti ai miei stessi occhi, alcune morivano. Ben presto mi resi conto che erano molte quelle che stavano morendo. L’anima moribonda resisteva per una settimana, forse un mese, di tempo umano, dopo essersi separata dal corpo conservandone la forma, e poi cominciava a svanire. L’essenza si disperdeva gradualmente, proprio come faceva quella di un animale quando quest’ultimo spirava. Scompariva nell’aria, forse riunendosi all’energia e all’essenza di Dio.»