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«Gli altri reagirono come se questa domanda fosse un esem­pio di autentica genialità. E forse era davvero così. In quel mo­mento la donna si strinse ancora di più a me; seduta al mio fian­co, lanciandomi un’occhiata supplichevole, mi abbracciò. Mi re­si conto di una cosa: il suo destino era legato al mio. Era spaven­tata da tutta quella gente, dai suoi consanguinei. Mentre non aveva paura di me! Interessante. Ecco che cosa sono capaci di fa­re la tenerezza e l’amore, e anche i miracoli, pensai. E Dio sostie­ne che questa gente è parte della natura! Chinai il capo, ma non a lungo. Alla fine mi alzai in piedi, facendo alzare anche lei, la mia compagna, per così dire, e, usando tutte le parole che conoscevo della sua lingua, persino alcune che i bambini di quella genera­zione avevano coniato e che gli adulti non conoscevano ancora, dissi: ‘Non voglio farvi del male. Sono venuto dal paradiso. Sono venuto qui per conoscervi e amarvi. E vi auguro solo tutte le cose belle che esistono al di sotto di Dio!’

«Scoppiò un grande clamore, un clamore felice, con la gente che batteva le mani e si alzava in piedi, i bambini che saltavano su e giù. Si raggiunse un accordo unanime sul fatto che Lilia, la donna con cui ero stato, poteva adesso rientrare nel gruppo. Era appena stata scacciata per morire in solitudine, quando mi aveva incontrato. Ma adesso godeva di un certo prestigio, era tornata con un dio, una divinità, un essere celeste... Cercarono di espri­merlo con numerose sillabe abbinate in vari modi.

«‘No!’ dichiarai. ‘Non sono un dio. Non ho creato il mondo. Venero, proprio come voi, il Dio che lo ha creato.’ Anche questa mia affermazione venne accolta con esultanza. In realtà, la frene­sia generale cominciò ad allarmarmi. Percepivo i limiti del mio corpo con tutti questi altri che ballavano, gridavano, strepitavano e prendevano a calci la legna nel fuoco, e con questa adorabi­le Lilia che si aggrappava a me. ‘Adesso devo dormire!’ dissi im­provvisamente. E non era altro che l’assoluta verità. Non avevo mai dormito per più di un’ora consecutiva durante i miei tre giorni nella carne, e adesso ero esausto, contuso e bandito dal paradiso. Avrei voluto girarmi verso questa donna e seppellire il mio dolore tra le sue braccia. Tutti dimostrarono la loro appro­vazione. Ci prepararono una capanna. La gente corse qua e là ra­dunando per noi le pelli e le pellicce più pregiate, la pelle masti­cata più morbida, poi ci spinse in silenzio dentro la capanna, e io mi sdraiai sulla pelliccia, la pelle di una capra di montagna, lunga e morbida.

«‘Dio, cosa vuoi che faccia?’ chiesi ad alta voce. Non ebbi ri­sposta. C’erano solo il silenzio e il buio nella capanna, e poi le braccia di una figlia degli uomini intorno a me, sensuali, affettuo­se, piene di tenerezza e di passione, quel mistero, quell’abbina­mento, quel vero e proprio miracolo vivente, tenerezza e lussuria che diventavano una cosa sola.» Memnoch s’interruppe. All’im­provviso sembrò sfinito. Si alzò e raggiunse di nuovo la riva del mare. Si fermò sulla soffice sabbia e sui ciottoli. Vidi balenare il contorno delle sue ali, forse nello stesso modo in cui l’aveva visto la donna, e poi lui fu semplicemente la consueta figura imponente, con le spalle incurvate mentre mi dava la schiena, il viso na­scosto tra le mani.

«Memnoch, cosa accadde?» chiesi. «Di certo Dio non ti la­sciò là! Cosa hai fatto? Cosa successe il mattino dopo, quando ti svegliasti?»

Lui sospirò e si voltò, finalmente. Tornò verso il masso e si se­dette di nuovo. «Quando giunse il mattino avevo già conosciuto Lilia una mezza dozzina di volte ed ero sfiancato, il che rappre­sentò di per sé un’ennesima lezione. Ma non avevo la più pallida idea di cosa avrei potuto fare. Mentre lei dormiva, io avevo pre­gato Dio, Michele e gli altri angeli. Avevo pregato e pregato, chiedendo cosa dovevo fare. Riesci a indovinare chi mi rispo­se?» chiese.

«Le anime di Sheol», azzardai.

«Sì, esatto! Furono loro a rispondermi. Come facevi a saper­lo? Quegli spiriti — le anime più forti di Sheol che udirono le mie preghiere al Creatore e udirono l’impeto, l’essenza delle mie gri­da, le mie scuse e le mie imploranti richieste di misericordia, per­dono e comprensione — sentirono tutto ciò, lo assorbirono, lo as­similarono, come facevano coi desideri spirituali dei loro figli an­cora in vita. E quando sorse il sole, quando tutti gli uomini del gruppo avevano già cominciato a radunarsi, sapevo solo che qua­lunque cosa mi accadesse, qualunque fosse la volontà di Dio, le anime di Sheol non sarebbero più state le stesse! Avevano appre­so troppe cose dalla voce di quest’angelo caduto che aveva av­ventatamente supplicato il paradiso e Dio. Non afferrai sino in fondo l’impatto della cosa, perché non rimasi seduto lì a ragio­narci sopra. Le anime più forti avevano intravisto per la prima volta il paradiso; ormai sapevano di una luce che induceva un an­gelo a piangere e a supplicare disperato perché temeva di non ri­vederla mai più. Non ci pensai. No. Dio mi aveva lasciato lì. Ec­co cosa pensai. Dio mi aveva abbandonato. Uscii per unirmi alla folla. L’accampamento traboccava di gente. Da tutti gli insedia­menti vicini stavano giungendo uomini e donne ansiosi di veder­mi. E fummo costretti a lasciare il luogo cintato per spostarci al­l’aperto, in uno dei campi. Guarda laggiù a destra, dove il terreno declina. Vedi il punto in cui il campo si allarga e l’acqua volge verso...?»

«Sì.»

«Fu lì che ci radunammo. E ben presto divenne evidente che tutti questi uomini e queste donne si aspettavano qualcosa da me, che parlassi, che facessi miracoli, che mi spuntassero le ali, qualcosa, ma ignoravo cosa. Quanto a Lilia, si aggrappava a me come sempre, seducente e bellissima, e colma di un vago stupo­re. Ci arrampicammo insieme su quella roccia... guarda, il masso lasciato milioni di anni fa dai ghiacciai. Là. Ci arrampicammo e lei si sedette mentre io rimanevo in piedi davanti a quella gente. A quel punto guardai verso il paradiso e allargai le braccia. Con tutto il cuore implorai Dio di perdonarmi, di riaccogliermi in pa­radiso, di portare al climax quest’intrusione tra gli uomini per mezzo della mia misericordiosa sparizione, cioè di lasciarmi as­sumere la mia forma angelica, invisibile, e salire al cielo. Lo desi­derai, lo immaginai, cercai di riacquistare la mia precedente natura in ogni modo possibile e immaginabile. Fu tutto inutile. Nei cieli soprastanti vidi ciò che vedevano gli uomini: l’azzurro del cielo e le sottili nubi bianche spinte verso est dal vento, e la fioca luna diurna. Il sole mi feriva le spalle. Feriva la sommità della mia testa. E in tutto quell’orrore qualcosa mi divenne chiaro: sa­rei morto in quel corpo! Avevo perso la mia immortalità! Dio mi aveva reso mortale e mi aveva voltato le spalle. Ci riflettei a lun­go. Lo avevo sospettato sin dal primo istante, ma allora, con la rapidità di un uomo, me ne convinsi, e in me nacque una profon­da rabbia. Guardai tutti quegli uomini e quelle donne. Pensai al­le parole che mi aveva détto Dio, al suo ordine di unirmi a coloro che avevo scelto, alla carne che preferivo al paradiso. E una deci­sione prese forma nella mia mente. Se quella doveva essere la mia fine, se dovevo morire in quel corpo mortale così come muoiono tutti gli uomini, se mi restavano solo giorni o settimane o addirit­tura anni — a seconda di quanto quel corpo poteva sperare di so­pravvivere tra le insidie della vita —, allora dovevo farne la cosa più sublime che conoscevo. Dovevo offrire a Dio il dono più su­blime: estinguermi in qualità di angelo, se l’estinzione rappresen­tava il mio destino!