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«‘Tì amo, mio Signore’,proclamai ad alta voce. E mi spremet­ti le meningi cercando di stabilire quale fosse l’atto più splendi­do che potessi compiere. La risposta che mi balenò nella mente fu logica e immediata, e forse ovvia. Avrei insegnato a quella gen­te tutto ciò che sapevo! Non mi sarei limitato a raccontare loro del paradiso, di Dio e degli angeli: a cosa sarebbe servito? Anche se, naturalmente, gliene avrei parlato, e avrei esortato tutti a cer­care una morte tranquilla e la pace a Sheol, perché questo pote­vano ottenerlo. Ma quello sarebbe stato il meno, tra ciò che avrei fatto, anzi non era niente! Ecco cos’era invece di gran lunga mi­gliore: avrei insegnato a queste persone, nel loro mondo, tutto ciò che io percepivo con la logica, ma che loro ancora non avevano appreso. Cominciai subito a parlare. Li guidai verso le montagne e li accompagnai all’interno delle caverne, mostrai loro le vene di metallo prezioso e spiegai che, quando questo metallo era caldis­simo, sgorgava dalla terra in forma liquida, ribollendo, e che, se fossero riusciti a riscaldarlo nuovamente, avrebbero potuto ammorbidirlo e ricavarne degli oggetti. Tornando verso il mare, rac­colsi del terriccio soffice e lo modellai creando statuette antropo­morfe per mostrare com’era facile! Con un bastoncino tracciai un cerchio sulla sabbia e parlai dei simboli. Spiegai come poteva­mo disegnare un simbolo per Lilia che somigliasse al fiore da cui era tratto il suo nome e che loro chiamavano lilium. E come po­tevamo creare un simbolo di ciò che ero... un uomo alato. Trac­ciai disegni ovunque, mostrando alla gente come fosse semplice associare un’immagine a un concetto o a un oggetto concreto. Quando scese la sera, avevo già radunato intorno a me tutte le donne, cui stavo spiegando come legare le loro corregge di pelle masticata, cosa che non avevano mai pensato di fare, mostrando modi elaborati per intrecciarle e ricavarne grosse pezze di mate­riale uniforme. Tutto logico. Era ciò che deducevo da quello che, come angelo, sapevo del mondo intero. Ora, queste persone co­noscevano già le stagioni della luna, ma ignoravano il calendario solare. Glielo illustrai in modo dettagliato. Spiegai quanti giorni avrebbero dovuto essere inclusi in un anno a seconda dei movi­menti del sole e dei pianeti, e come potevano prender nota di tutto ciò usando dei simboli. E ben presto raccogliemmo l’argilla dalla riva del mare e ne ricavammo tavolette su cui, usando dei bastoncini, disegnai le stelle, il paradiso e gli angeli. E poi le la­sciammo essiccare al sole. Per diversi giorni e notti rimasi con la mia gente. Cominciai a insegnare loro sempre più cose, ancora e ancora. Quando un gruppo si stancava e non poteva seguire altre lezioni, mi rivolgevo a un altro ed esaminavo quello che stavano facendo i suoi membri, cercando costantemente di perfezionar­ne i metodi. Sapevo che avrebbero appreso molte cose da soli. Ben presto avrebbero scoperto la tessitura, per confezionare in­dumenti migliori. Tutto ciò era un bene. Mostrai loro dei pig­menti simili al rosso ocra che già utilizzavano. Dalla terra grezza estrassi sostanze che avrebbero fornito colori diversi. Comunica­vo loro ogni idea che mi balenava nella mente, ogni miglioria che riuscivo a immaginare, ampliando nel frattempo il loro vocabo­lario, insegnando loro a scrivere. Inoltre li iniziai anche a un tipo di musica completamente nuova, e ai canti. Le donne vennero da me, ripetutamente — e Lilia si fece da parte —, affinchè il seme dell’angelo potesse entrare in molte, moltissime di loro, ‘le avve­nenti figlie degli uomini’.» S’interruppe di nuovo; sembrava che gli si fosse spezzato il cuore, mentre ricordava quel periodo. I suoi occhi avevano un’espressione distante e riflettevano il cele­ste del mare.

Cominciai a parlare in tono sommesso e cauto, attingendo alla mia memoria e pronto a interrompermi se lui avesse dato segno di non gradire. Citai una frase del libro di Enoch. «‘E Azazel... mostrò loro i metalli e l’arte di lavorarli, e braccialetti e orna­menti, e l’uso dell’antimonio, e l’abbellimento delle palpebre, e pietre preziose di ogni genere, e tutte le tinture colorate.’»

Memnoch si voltò a guardarmi, apparentemente incapace di proferire verbo. La sua voce giunse poi fioca, quasi come la mia, mentre recitava le righe successive del libro di Enoch. «‘E nac­que parecchia empietà, e loro si diedero alla fornicazione, e ven­nero fuorviati...’» Fece una nuova pausa e poi riprese: «‘E men­tre gli uomini perivano gridavano, e il loro grido saliva fino al cielo’». Ancora una volta s’interruppe, con un lento, amaro sor­riso. «E il resto, Lestat, ciò che viene detto tra i versi che hai cita­to tu e quelli che ho citato io? Menzogne! Insegnai a quella gente la civiltà. Insegnai loro la conoscenza del paradiso e degli angeli! È tutto quello che ho insegnato loro. Non ci furono né sangue né illegalità né mostruosi giganti sulla terra. Sono tutte menzogne, frammenti su frammenti sepolti nelle menzogne!»

Annuii, senza paura, e piuttosto sicuro della questione, ve­dendola con estrema chiarezza e dal punto di vista degli ebrei, che in seguito credettero così fermamente nella purificazione e nella legge, mentre prima l’avevano considerata un insieme di impurità e male... e narrarono di questi osservatori, questi inse­gnanti, questi angeli che si erano innamorati delle figlie degli uo­mini.

«Non ci fu nessuna magia», dichiarò Memnoch in modo pa­cato. «Non ci furono incantesimi. Non insegnai loro a forgiare le spade! Non insegnai loro la guerra. Se esisteva la conoscenza tra altri popoli della terra, e io ne ero al corrente, gliela trasmettevo. Dicevo loro che nella vallata di un altro fiume gli uomini sapeva­no raccogliere il grano con le falci! Che in paradiso c’erano gli ophanim, angeli rotondi, angeli che erano ruote, e spiegai che se questa forma veniva imitata con la materia, se un semplice pezzo di legno collegava due pezzi arrotondati, si poteva costruire un oggetto capace di rotolare su queste ruote!» Sospirò. «Non dor­mivo mai, ero impazzito. Mentre la conoscenza sgorgava da me e loro ne venivano logorati, arrancando sotto il suo fardello, io en­travo nelle caverne e incidevo i miei simboli sulle pareti. Incide­vo immagini del paradiso, della terra e degli angeli. Incidevo la luce di Dio. Lavoravo senza sosta finché ogni muscolo mortale, in me, non cominciava a dolere. E poi, incapace di sopportare ol­tre la loro compagnia, sazio di donne bellissime e aggrappando­mi a Lilia per trame consolazione, mi addentravo nella foresta, dichiarando che avevo bisogno di parlare col mio Dio immerso nel silenzio, e lì crollavo. Giacevo immobile, confortato dalla si­lenziosa presenza di Lilia, e ripensavo a tutto ciò che era succes­so. Ripensavo al caso che avevo progettato di esporre a Dio e a come ciò che avevo appreso da quel momento in poi vi si era adattato alla perfezione! Niente di quello che avevo visto negli uomini poteva indurmi a cambiare parere. Pensavo di aver offe­so Dio, di averlo perduto per sempre, di avere Sheol cui aspirare, per tutta l’eternità; queste cose erano reali e le conoscevo, e per­cuotevano la mia anima e il mio cuore. Ma non potevo cambiare idea! L’arringa che avevo progettato di esporre all’Onnipotente sosteneva che queste persone erano al di sopra della natura e al di là della natura, e richiedevano una parte più cospicua di Dio; tutto ciò di cui ero stato testimone non faceva che confermare la mia convinzione. Avevo visto come avevano accolto i segreti ce­lesti, come soffrivano e cercavano un significato che giustificasse quelle sofferenze! Se solo ci fosse stato un Creatore e se solo il Creatore avesse avuto i suoi motivi... Oh, era un’autentica ago­nia. E nel suo nucleo sfavillava il segreto della lussuria. Durante l’orgasmo, quando il mio seme era sgorgato nella donna, avevo provato un’estasi simile alla gioia del paradiso, l’avevo provata e la provavo solo in relazione al corpo sdraiato sotto di me; e, per una frazione di secondo o forse meno, avevo capito, capito, capi­to che gli uomini non erano parte della natura, no, erano meglio: il loro posto era con Dio e con noi! Quando venivano da me con le loro confuse credenze — non c’erano forse mostri invisibili ovunque? — rispondevo loro di no. C’erano solo Dio e la corte celeste che stabilivano ogni cosa, e le anime dei loro simili a Sheol. Quando mi chiesero se gli uomini e le donne malvagi, cioè che non obbedivano alle loro leggi, venissero gettati tra le fiam­me per morire in eterno — idea molto diffusa tra loro e altri popo­li —, io rimasi orripilato e risposi che Dio non avrebbe mai per­messo una cosa del genere. Una minuscola anima appena nata che veniva punita per sempre nel fuoco? Un’atrocità, risposi. Ancora una volta spiegai che dovevano venerare le anime dei morti per alleviare la propria sofferenza e la sofferenza di quelle anime, e che, quando fosse giunta la morte, non avrebbero dovu­to averne paura ma andare tranquillamente nella semioscurità e tenere lo sguardo fisso sulla brillante luce della vita sulla terra. Dissi la maggior parte di queste cose solo perché non sapevo co­sa dire. Oh, empietà. L’avevo fatto, l’avevo fatto davvero. E per­ciò quale sarebbe stato il mio destino? Sarei invecchiato e poi morto, un maestro assai venerato, e prima di morire — o prima che una pestilenza o una bestia selvatica mettessero prematura­mente fine alla mia esistenza — avrei inciso nella pietra e nell’argilla tutto il possibile. E infine sarei andato a Sheol, avrei comin­ciato a radunare intorno a me le anime e le avrei incitate: ‘Grida­te, gridate verso il paradiso!’ E avrei insegnato loro a guardare in alto. Avrei detto che la luce era là!» Riprese fiato, come se ogni parola lo riempisse di bruciante dolore.