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«‘Sei spietato con le tue creazioni, mio Signore!’ urlai il più forte possibile, per sovrastare il frastuono del penoso cantare. ‘Gli uomini e le donne fatti a tua immagine hanno ragione di disprezzarti, perché nove decimi di loro starebbero meglio se non fossero mai nati! ‘» Memnoch interruppe il suo racconto e si ac­cigliò, solo un minuscolo e momentaneo cipiglio perfettamente simmetrico, poi chinò il capo come se stesse ascoltando qualco­sa. Infine si voltò verso di me.

Sostenni il suo sguardo.

«È quello che avresti fatto anche tu, vero?» mi chiese.

«Dio mi aiuti, non lo so davvero», risposi.

Il paesaggio stava cambiando. Mentre ci guardavamo, il mon­do intorno a noi si riempì di nuovi suoni. Mi resi conto che c’era­no degli umani nei paraggi, uomini con greggi di capre e pecore, e, molto in lontananza, riuscii a scorgere le mura di una città e, su una collina, un piccolo insediamento. Ci trovavamo in un mondo popolato, ormai, antico ma non così distante dal nostro. Sapevo che queste persone non potevano vederci né sentirci; non c’era più bisogno che lui me lo dicesse.

Memnoch continuò a fissarmi, come se mi stesse chiedendo qualcosa, e io ignoravo di cosa si trattasse. Il sole picchiava su en­trambi. Mi accorsi che le mie mani erano madide di sudore di sangue, ne alzai una per asciugarmi il sudore dalla fronte e poi guardai il sangue sulla mia mano. Lui era ricoperto di un tenue scintillio, niente di più. Continuava imperterrito a fissarmi.

«Cos’è successo? Perché non me lo dici? Cos’è successo? Perché non continui?» lo incalzai.

«Sai dannatamente bene cos’è successo», rispose. «Guarda come sei vestito. Adesso porti una tunica, più adatta al deserto. Voglio che tu venga là, subito, oltre quelle colline... con me.»

Si alzò e io lo seguii. Ci trovavamo in Terra Santa, non c’erano dubbi. Superammo dozzine e dozzine di gruppi di persone, pe­scatori vicino a un paesino in riva al mare, altri che badavano a pecore o capre oppure guidavano piccole greggi verso insedia­menti e luoghi cintati poco distanti.

Ogni cosa mi appariva familiare in modo inquietante, non un semplice déjà vu o la sensazione di aver già vissuto lì. Familiare come se fosse cablato nel mio cervello. E mi riferisco a ogni co­sa... persino un uomo nudo con le gambe storte, che urlava e far­neticava mentre ci oltrepassava senza vederci, una mano serrata su un rudimentale bastone da passeggio. Sotto gli strati di sabbia che ricoprivano tutto, ero circondato da forme, stili e comporta­menti che conoscevo bene... grazie alle Sacre Scritture, alle inci­sioni, alle illustrazioni ornate e alle rappresentazioni cinematografiche. Quello era — in tutta la sua gloria ridotta all’essenziale e ardente — un terreno sacro, oltre che familiare.

Riuscimmo a vedere gente in piedi davanti alle caverne in cui viveva, su tra le colline. Qua e là dei gruppetti sedevano all’om­bra sotto le piante di una macchia, sonnecchiando, chiacchieran­do. Dalle città cinte di mura giungeva una pulsazione lontana. L’aria era piena di sabbia, che veniva spinta dal vento nelle mie narici e mi si appiccicava su labbra e capelli.

Memnoch non aveva ali. La sua tunica era sudicia, come la mia. Credo che fossero di lino: il tessuto era leggero e lasciava fil­trare l’aria. Le nostre vesti erano lunghe e modeste. La nostra pelle, le nostre forme erano immutate.

Il cielo era di un azzurro luminoso e il sole riversava la sua lu­ce abbagliante su di me, come avrebbe potuto riversarla su qua­lunque creatura. Il sudore sembrava ora gradevole ora insoppor­tabile. E fugacemente pensai che, in qualsiasi altro momento, avrei potuto stupirmi anche unicamente del sole, la meraviglia del sole negato ai Figli delle Tenebre; ma in tutto quel tempo non ci avevo mai pensato, nemmeno una volta, perché, dopo aver visto la luce di Dio, il sole aveva cessato di essere la Luce, per me.

C’inerpicammo sulle colline rocciose, salendo ripidi sentieri e attraversando affioramenti di roccia e rade macchie di alberi, e infine, sotto e davanti a noi, apparve un’ampia distesa di sabbia, che scottava e si spostava, lenta, nel vento fastidioso.

Memnoch si fermò proprio sul limitare di quel deserto, per così dire, nel punto in cui avremmo lasciato il terreno solido ben­ché roccioso e sconnesso, passando nella soffice ma disagevole sabbia. Lo raggiunsi dopo essere rimasto un po’ indietro. Lui mi cinse col braccio sinistro e le sue dita si allargarono, salde e massicce, sulla mia spalla. Fui felice di quel gesto perché ero vittima di una prevedibile apprensione; a dire il vero, dentro di me stava montando la paura, la più orrenda premonizione che avessi mai avuto.

«Dopo che Dio mi ebbe scacciato, vagabondai», riprese Memnoch. Il suo sguardo si perdeva nel deserto e in quelle che sembravano brulle, brillanti scogliere rocciose in lontananza, ostili come il deserto stesso. «Errai come spesso hai fatto tu, Lestat. Senza ali e col cuore spezzato, vagai senza scopo per le città e le nazioni della terra, su continenti e distese sterili. Un giorno ti racconterò tutto, se vuoi. Adesso è irrilevante. Lasciami dire solo ciò che è importante, e cioè che non avevo il coraggio di render­mi visibile o noto all’umanità, ma mi nascondevo tra gli umani, invisibile, non osando assumere la forma carnale per paura di far infuriare di nuovo il Signore; e non osando unirmi alla lotta uma­na adottando un travestimento, per paura di Dio e per paura dei mali che avrei potuto procurare agli uomini. A causa di questi stessi timori, non tornai a Sheol. Non volevo in nessun modo au­mentarne le sofferenze. Solo Dio poteva liberare quelle anime. Quali speranze avrei potuto offrire loro? Tuttavia riuscivo a ve­dere Sheol, a percepirne l’immensità, e sentivo il dolore delle anime che vi abitavano, e mi stupivo dei nuovi e intricati e sem­pre cangianti schemi di confusione creati dai mortali mentre abbandonavano una fede, una setta o un credo dopo l’altro in favo­re di quel penoso margine di tristezza. Una volta fui colpito da un’idea arrogante: se fossi penetrato a Sheol, avrei potuto istrui­re le anime in modo così esauriente che forse loro stesse sarebbe­ro riuscite a trasformarlo, a creare al suo interno forme inventate dalla speranza anziché dalla disperazione, e, col passare del tem­po, se ne sarebbe potuto ricavare un giardino. Di certo gli eletti, i milioni di anime che avevo portato in paradiso, avevano trasfor­mato drasticamente la loro porzione di quel luogo. Ma se avessi fallito, riuscendo solo ad accrescere il caos? Non osavo. Non osavo, per paura di Dio e per paura dell’incapacità di trasforma­re in realtà un simile sogno. Durante le mie peregrinazioni for­mulai diverse teorie, ma non cambiai idea su niente di ciò che credevo, sentivo o avevo detto a Dio. In realtà lo pregavo spesso, nonostante il suo totale silenzio, dicendogli con quanta sicurezza continuavo a pensare che avesse abbandonato la sua creatura meglio riuscita. E talvolta, estenuato, cantavo soltanto le sue lo­di. A volte rimanevo zitto. Guardando, ascoltando... osservan­do... Memnoch, l’osservatore, l’angelo caduto. Non sospettavo minimamente che la mia discussione con Dio Onnipotente fosse soltanto all’inizio. Ma, a un certo punto, mi ritrovai a dirigermi verso le stesse vallate che avevo visitato all’inizio, là dove erano state edificate le prime città dell’uomo. Quella per me era la terra dei primordi perché, sebbene in molte nazioni fossero sorti gran­di popoli, era lì che avevo giaciuto con le figlie degli uomini. Ed era lì che avevo imparato, sulla carne, qualcosa che continuavo a ritenere che Dio ignorasse. Dunque, mentre raggiungevo quel luogo, entrai a Gerusalemme — che tra l’altro si trova solo dieci o dodici chilometri più a ovest del punto in cui ci troviamo adesso — e capii subito in quale epoca ci trovavamo: i Romani governa­vano questa terra, gli ebrei avevano subito una lunga e terribile cattività e le tribù risalenti al tempo dei primissimi insediamenti — che avevano creduto nel Dio Unico — erano sottomesse ai poli­teisti, i quali non attribuivano nessuna importanza alle loro cre­denze. Le stesse tribù di monoteisti erano divise su molte que­stioni; alcuni ebrei erano strettamente farisei, altri sadducei, mentre altri ancora avevano cercato di creare comunità nelle caverne situate sulle colline retrostanti. Se c’era una caratteristica che, ai miei occhi, rendeva quell’epoca degna di nota — cioè del tutto diversa da ogni altra — era il potere dell’Impero Romano, più esteso di qualsiasi altro impero occidentale io avessi mai vi­sto e che, in un certo senso, continuava a ignorare il Grande Im­pero Cinese, come se non appartenesse allo stesso mondo. Ma qualcosa in questo luogo mi attirò, e già lo sapevo. Percepivo una presenza che non era una vera e propria chiamata, ma era come se qualcuno mi stesse gridando di venire eppure non voles­se sfruttare sino in fondo la potenza della propria voce. Dovevo cercare, dovevo indagare. Forse questo qualcosa mi pedinò e mi sedusse, come io ho fatto con te. Non lo so. Comunque venni qui e mi aggirai per Gerusalemme, ascoltando ciò che le lingue degli uomini avevano da dire. Parlavano dei profeti e dei santoni del deserto, di discussioni imperniate sulla legge, sulla purificazione e sulla volontà di Dio. Parlavano di testi sacri e tradizioni sacre. Parlavano di uomini che andavano a farsi ‘battezzare’ nell’acqua per essere ‘salvati’ agli occhi del Signore. E, infine, parlavano di un uomo che da poco si era ritirato nel deserto dopo il battesimo perché, nel momento in cui era entrato nel Giordano e l’acqua gli era stata versata sulla testa, i cieli si erano aperti sopra di lui ed era apparsa la luce proveniente da Dio. Naturalmente si pote­vano ascoltare racconti simili in tutto il mondo; non era affatto insolito per me, eppure mi attirava. Sembrava dirmi che quello era il mio Paese; e, come se qualcuno mi stesse guidando, mi ri­trovai a lasciare Gerusalemme, dirigendomi a est, nel deserto. I miei acuti sensi angelici m’informavano che mi trovavo vicino al­la presenza di qualcosa di misterioso, qualcosa che faceva parte del sacro in un modo che un angelo avrebbe compreso non ap­pena lo avesse visto, e che invece un uomo avrebbe potuto non capire. La mia ragione lo rifiutava, eppure continuai a cammina­re, nella calura diurna, privo di ali e invisibile, nel deserto.»