Eravamo soli, fermi sulla sabbia, il suo sguardo perso in lontananza e io immobile al suo fianco, profondamente scosso.
«Non lo ha fatto, vero, Memnoch? Dio è morto sapendo di essere Dio. È morto e risorto non smettendo mai di saperlo. Il mondo ne discute e s’interroga, ma Lui lo sapeva. Quando vennero piantati i chiodi, sapeva di essere Dio», esclamai.
«Sì. Era un uomo, ma quell’uomo non fu mai privo del potere di Dio», confermò Memnoch.
All’improvviso fui distratto da qualcosa. Memnoch sembrava troppo scosso per aggiungere altro, per il momento. Avvenne un cambiamento nel paesaggio. Guardai verso il cerchio di pietre e mi accorsi di una figura seduta lì, un uomo dalla pelle e dagli occhi scuri, emaciato e ricoperto dalla sabbia del deserto: ci stava guardando. E senza una sola fibra della sua carne che non fosse umana, era ovviamente Dio.
Rimasi pietrificato. Avevo perso la cognizione del tempo e dello spazio. Non sapevo come procedere o tornare indietro, o cosa fosse situato a destra o a sinistra. Ero pietrificato ma non spaventato, e quell’uomo con gli occhi scuri ci stava guardando con un’espressione di totale, tenera comprensione, manifestando la stessa illimitata accettazione di noi che avevo notato in Lui in paradiso, quando si era voltato e mi aveva afferrato le braccia.
Il Figlio di Dio.
«Vieni qui, Lestat», disse sommessamente, sovrastando il vento del deserto, con voce umana. «Avvicinati.»
Guardai Memnoch. Anche lui lo stava fissando, adesso, e fece un sorriso amaro. «Lestat, è sempre consigliabile, a prescindere da come Lui si stia comportando, fare esattamente ciò che dice.»
Bestemmia. Mi voltai, tremando, e mi avvicinai alla figura, consapevole di ogni passo strascicato sulla sabbia rovente, la forma scura e magra che mi appariva sempre più distinta, quella di un uomo stanco e sofferente. M’inginocchiai di fronte a Lui, levando lo sguardo verso il suo viso.
«Il Signore Vivente», sussurrai.
«Voglio che tu venga a Gerusalemme», disse. Allungò una mano e mi scostò i capelli dal viso, e la mano era come Memnoch l’aveva descritta, asciutta, callosa, scurita dal sole come la sua fronte. Ma la voce restava in un punto imprecisato tra il naturale e il sublime, sfoggiava un timbro che andava al di là dell’angelico. Seppur limitata ai suoni umani, era la voce che mi aveva parlato in paradiso.
Non potevo rispondere. Non potevo fare nulla. Sapevo che non avrei fatto nulla finché non mi fosse stato detto di farlo. Memnoch rimase in disparte, a braccia conserte, osservando. E io rimasi inginocchiato, guardando dritto negli occhi Dio Incarnato, rimasi inginocchiato completamente solo davanti a Lui.
«Vieni a Gerusalemme», ripetè. «Non ti ci vorrà molto, forse non più di qualche istante, ma vieni a Gerusalemme con Memnoch nel giorno della mia morte, e osserva la mia Passione; cerca di vedermi incoronato di spine mentre trasporto la mia croce. Fallo per me, prima di decidere se servire Memnoch oppure il Signore Iddio.»
Ogni parte di me sapeva che non potevo farlo. Non potevo sopportarlo! Non potevo guardare. Non potevo. Ero paralizzato. Disobbedienza, bestemmia, non erano questi i problemi. Non riuscivo a sopportare l’idea! Lo fissai, fissai il suo viso bruciato dal sole, i suoi occhi dolci e affettuosi, la sabbia attaccata a un lato della sua guancia. I suoi capelli scuri erano trascurati, arruffati dal vento, scostati dal viso. No! Non posso farlo! Non riesco a sopportarlo!
«Oh, sì che puoi», disse Dio in tono rassicurante. «Lestat, mio audace, che porti la morte a così tanti, vorresti davvero tornare sulla terra senza la fugace visione di ciò che offro? Vorresti davvero rinunciare a questa occasione di vedermi incoronato di spine? Quando mai hai rifiutato una sfida? Pensa a cosa ti sto offrendo. No, non ti tireresti mai indietro, nemmeno se Memnoch ti sollecitasse a farlo.»
Sapevo che aveva ragione, eppure sapevo anche di non poterlo sopportare. Non potevo andare a Gerusalemme per vedere Cristo che portava la sua croce. Non potevo. Non potevo. Non ne avevo la forza, avrei... Rimasi in silenzio. Una ridda di pensieri mi condannavano a una confusione e a una paralisi totali. «Posso forse guardare una cosa simile?» chiesi. Chiusi gli occhi! Poi li riaprii e fissai di nuovo Dio e Memnoch, che si era avvicinato e guardava verso di me con un’espressione intima, fredda, mentre il suo viso era piuttosto sereno.
«Memnoch, portalo là, mostragli la strada, lascia che veda solo per un attimo. Fagli da guida, e poi procedi col tuo esame e il tuo appello», disse Dio Incarnato. Mi guardò e sorrise. Sembrava un ricettacolo davvero fragile per la sua magnificenza. Un uomo con gli occhi circondati dalle rughe provocate dal sole ardente, con i denti consumati, un uomo. «Ricorda, Lestat, questo è soltanto il mondo. Conosci il mondo. Sheol aspetta. Hai visto il mondo e il paradiso, ma non hai visto l’inferno», mi disse Dio.
18
Ci trovavamo nella città, una città fatta di pietra e argilla marrone scuro e giallo chiaro. Erano passati tre anni. Doveva essere così. Tutto ciò che sapevo era che facevamo parte di un’enorme folla di persone in tunica, velate e cenciose; sentivo l’odore del sudore umano, il tepore del fiato stantio e il tanfo soffocante di rifiuti umani e stereo di cammello. E, sebbene nessuno badasse a noi, sentivo la gente accalcarsi tutt’intorno, uomini non lavati che premevano contro di me e mi passavano davanti strusciandomi, e la sabbia rendeva salata l’aria entro le mura della città, nelle stradine anguste, proprio come aveva reso salata l’aria del deserto.
La gente era riunita in piccoli androni circolari, sbirciava dalle finestre soprastanti. La fuliggine si mescolava alla sabbia perenne. Donne, che si coprivano il volto col velo, si aggrappavano l’una all’altra, oltrepassandoci. Più su riuscivo a sentire urla e grida. All’improvviso, mi accorsi che la folla era talmente accalcata intorno a noi che non potevo muovermi. Cercai Memnoch, disperato.
Era proprio accanto a me, osservando ogni cosa; nessuno di noi due riluceva di uno sfavillio sovrannaturale tra quegli umani scialbi e sudici, quelle creature quotidiane di un’epoca antica e austera.
«Non voglio farlo!» gemetti, puntando i piedi, spinto dalla folla eppure resistendo. «Non penso di poterci riuscire! Non posso guardare, Memnoch, no, non sono obbligato a farlo. No... non voglio procedere oltre. Memnoch, lasciami andare!»
«Zitto. Siamo quasi arrivati nel posto in cui Lui passerà», rispose in tono severo.
Cingendomi col braccio sinistro, stringendomi con aria protettiva, fendette la folla davanti a noi, quasi senza sforzo, finché non sbucammo nella prima fila formata da quanti aspettavano su una via più ampia mentre la processione avanzava. Le urla erano assordanti. Alcuni soldati romani ci oltrepassarono, gli indumenti sporchi di terriccio, i visi stanchi, addirittura annoiati, cupi. Dall’altra parte della strada, sul lato opposto del corteo, una donna bellissima e con la testa coperta da un lungo velo bianco levò le mani al cielo e gridò.
Stava guardando il Figlio di Dio. Era appena comparso. Per prima cosa vidi il grosso braccio orizzontale della croce le cui estremità, posate sulle spalle di Cristo, sporgevano sui due lati, e poi le sue mani, legate al braccio verticale, che penzolavano dalle funi e dalle quali sgocciolava già il sangue. La sua testa era china in avanti; i capelli castani erano arruffati e sporchi e coperti dalla rozza corona nera di rovi spinosi; gli spettatori erano accalcati sui due lati, alcuni lo schernivano, altri rimanevano in silenzio.