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Non risposi.

Per fortuna la sua voce cessò, ma non la battaglia. Ci fu un’esplosione. Le fiamme ruggirono così alte che riuscii a vedere i santi sulla cupola. In un lampo l’intera, splendida prospettiva della basilica sfavillò intorno a me: l’enorme ovale, gli innumere­voli ordini di colonne, i grandi semiarchi che sostenevano la cu­pola. La luce si affievolì, poi esplose di nuovo, mentre le grida ri­suonavano con rinnovato vigore.

Allora chiusi gli occhi e rimasi immobile, ignorando i calci e i piedi che mi calpestavano, premendo con violenza sulla mia schiena mentre passavano. Avevo il velo ed ero sdraiato lì, immobile.

«L’inferno può essere peggiore di questo?» chiesi. La mia vo­ce era flebile e pensavo che lui non potesse sentirmi, dato il fra­stuono della battaglia.

«Non lo so davvero», rispose, con lo stesso tono intimo, co­me se il nostro imprecisato legame portasse messaggi dall’uno al­l’altro, senza sforzo.

«È Sheol l’inferno?» domandai. «Le anime possono uscire?»

Lui non rispose. «Pensi che intraprenderei questa battaglia con Lui a qualunque condizione, se le anime non potessero far­lo?» chiese poi, come se l’idea stessa di un inferno eterno lo of­fendesse.

«Portami via di qui, ti prego», sussurrai. La mia guancia era posata sulla fredda pietra del pavimento della chiesa. Il tanfo dello stereo dei cavalli si mescolava a quello dell’urina e del san­gue, ma la cosa peggiore erano le grida! Le grida e l’incessante tintinnio del metallo! «Memnoch, portami fuori di qui! Dimmi il motivo di questa battaglia tra te e Lui! Dimmi quali sono le re­gole!» Mi sforzai di mettermi seduto, accostando le ginocchia al corpo, asciugandomi gli occhi con la mano sinistra, la destra an­cora stretta sul velo. Cominciai a sentirmi soffocare dal fumo. Mi bruciavano gli occhi. «Dimmi, cosa intendevi quando hai di­chiarato di aver bisogno di me e che stavi vincendo la battaglia? Cosa è la battaglia tra voi due? Cosa vuoi che faccia? In che senso sei il suo avversario? Cosa dovrei fare, in nome di Dio?» Alzai gli occhi.

Lui era seduto con atteggiamento rilassato, un ginocchio sol­levato, le braccia conserte, il volto per un attimo ben visibile nel bagliore delle fiamme e sfocato nell’attimo seguente. Era coperto di sporcizia da capo a piedi, e sembrava piuttosto debole, im­merso in una strana, leggiadra infelicità. La sua espressione non era amareggiata né sarcastica, solo meditabonda: un’espressione tollerante e statica, come statici erano i volti sui mosaici, inani­mati testimoni di ciò che accadeva.

«Quindi dovremo tralasciare così tante guerre? Trascurare così tanti massacri? Abbiamo già sorvolato su così tanti marti­rii», dichiarò. «Ma in fin dei conti l’immaginazione non ti man­ca, Lestat.»

«Lasciami riposare, Memnoch. Rispondi alle mie domande. Non sono un angelo, solo un mostro. Ti prego, andiamocene.»

«D’accordo», acconsentì. «Ce ne andiamo subito. Sei stato coraggioso, in realtà, proprio come avevo previsto. Le tue lacri­me sono copiose e vengono dal cuore.»

Non risposi. Mi posai la mano sinistra sull’orecchio. Come potevo muovermi? Mi aspettavo che lui evocasse la tromba d’a­ria per portarci via? Avevo ancora membra capaci di obbedire ai miei ordini?

«Andiamo, Lestat», ripetè. Sentii levarsi il vento: era la trom­ba d’aria, e le pareti si erano già ritratte di scatto. Premetti la ma­no sul velo e udii la voce di Memnoch nel mio orecchio: «Ripo­sa, adesso».

Le anime mulinarono intorno a noi nell’oscurità. Sentii la mia testa contro la sua spalla, il vento che mi scompigliava i capelli. Chiusi gli occhi e vidi il Figlio di Dio entrare in un luogo vasto, buio e triste. I raggi di luce venivano emanati in ogni direzione dalla sua figura minuta e ben visibile, illuminando centinaia di forme umane, forme di anime, forme spettrali che lottavano.

«Sheol», cercai di dire. Ma ci trovavamo nella tromba d’aria, e questa era un’immagine impressa solo sul nero dei miei occhi chiusi. La luce si fece più intensa, i raggi che si fondevano in un unico splendido bagliore, come se mi trovassi in Sua presenza, e i canti si levarono, più forti e chiari, sovrastando le anime geme­bonde intorno a noi, finché la mescolanza di gemiti e canti non divenne la natura della visione e la natura della tromba d’aria. Ed erano una cosa sola.

19

Ero sdraiato in un luogo imprecisato, all’aperto, su un terreno roccioso. Avevo ancora il velo di Veronica: riuscivo a sentirne il volume, ma non osavo infilare una mano sotto la giacca per estrarlo ed esaminarlo.

Vidi Memnoch in piedi a una certa distanza da me, nella sua completa forma glorificata, le ali imponenti raccolte dietro di lui, e vidi Dio Incarnato, risorto, le ferite ancora rosse sulle caviglie e sui polsi, ma gli avevano fatto il bagno e lo avevano ripulito, e il suo corpo aveva le stesse dimensioni di quello di Memnoch, cioè più grandi di quelle umane. La sua veste era bianca e fresca di bucato, i suoi capelli scuri ancora striati di sangue essiccato, ma ben pettinati. Sembrava che la luce che filtrava dalle cellule epidermiche del suo corpo fosse più cospicua rispetto a prima della crocifissione, e Lui emanava un intenso fulgore che faceva appa­rire leggermente fioca, per contrasto, la radiosità di Memnoch. Tuttavia le due luminosità non si contrastavano ed erano, in linea di massima, dello stesso tipo.

Rimasi disteso, guardando in su e ascoltando la loro discus­sione. E solo con la coda dell’occhio — prima di riuscire a sentire distintamente le loro voci — notai che questo era un campo di battaglia disseminato di morti. Non ci trovavamo ancora all’epo­ca della quarta crociata — non c’era bisogno che qualcuno me lo dicesse —, bensì in un tempo precedente; i cadaveri indossavano armatura e vesti che, se interrogato in proposito, avrei potuto collocare nel III secolo, pur non potendone essere sicuro. Di cer­to era un’epoca antica, molto antica.

I cadaveri puzzavano. L’aria era piena di insetti che banchet­tavano, e c’erano persino alcuni avvoltoi che calavano goffi dal cielo, per lacerare l’orrenda carne gonfia dei morti; da lontano mi giunsero i suoni dell’acre contesa, fatta di ringhi e latrati, dei lupi in lotta.

«Sì, capisco!» dichiarò Memnoch pieno d’ira. Stava usando una lingua che non era né inglese né francese, eppure la capivo perfettamente. «Le porte del paradiso sono aperte per tutti coloro che muoiono nella consapevolezza e accettazione dell’armo­nia del creato e della bontà di Dio! E gli altri? Gli altri milioni?»

«Te lo chiedo ancora una volta», disse il Figlio di Dio, «per­ché mai dovrei preoccuparmi degli altri? Di coloro che muoiono senza la consapevolezza, l’accettazione e la conoscenza di Dio. Perché? Cosa sono per me?»