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«Sei spietato, Dio», sussurrò Memnoch, rifiutando di cedere di un solo millimetro. «Insegnerò loro a perdonarti per come sei: maestoso, infinitamente creativo e imperfetto.»

Dio Incarnato rise sommessamente e lo baciò sulla fronte. «Sono un Dio saggio e un Dio paziente. Sono Colui che ti ha creato», disse.

Le immagini svanirono, non sbiadirono, scomparvero sempli­cemente.

Ero sdraiato sul campo di battaglia, solo.

Il tanfo era uno strato gassoso che aleggiava sopra di me, av­velenando ogni mio respiro, perché ovunque c’erano cadaveri, a perdita d’occhio. Un rumore mi fece trasalire. La figura magra e ansante di un lupo mi si avvicinò, avanzando velocemente a testa bassa. M’irrigidii. Vidi i suoi occhi stretti e obliqui mentre allun­gava con arroganza il muso verso di me. Sentii il suo fiato caldo, puzzolente. Girai il viso dall’altra parte. Lo udii annusarmi l’o­recchio, i capelli; emise un ringhio cupo. Mi limitai a chiudere gli occhi e, infilando la mano destra sotto la giacca, tastai il velo. I denti del lupo mi graffiarono il collo. Mi voltai di scatto, mi alzai e lo scaraventai lontano, facendolo rotolare, guaire e infine scap­pare. Fuggì, calpestando i cadaveri.

Trassi un respiro profondo. Mi resi conto che il cielo sopra di me era il cielo diurno della terra e guardai le nubi bianche, le semplici nubi bianche, e il fioco, lontano orizzonte, e ascoltai lo sciame di insetti — i moscerini e le mosche che si sollevavano e vorticavano qua e là sopra i corpi — e i grossi, ingobbiti e brutti avvoltoi che banchettavano guardinghi.

Da molto lontano giunse il suono di un pianto umano. Ma il cielo era splendidamente sereno, le nubi si diradarono, tanto da svelare il sole in tutto il suo potere, e il tepore si riversò sulle mie mani e sul mio viso, sui corpi gassosi che esplodevano in­torno a me.

Credo di aver perso i sensi. Volevo farlo. Volevo ricadere all’indietro sul terreno e mettermi bocconi, giacere con la fronte a terra e infilare la mano sotto la giacca per sentire che il velo era ancora lì.

20

Il giardino dell’attesa. Il luogo tranquillo e radioso davanti alle porte celesti. Un luogo da cui le anime ritornano saltuariamente, quando la morte le conduce lì, e si sentono dire che non è ancora il momento e che possono tornare a casa.

In lontananza, sotto il cielo scintillante color cobalto, vidi i morti recenti accolti dai morti più anziani. Un assembramento dopo l’altro. Vidi gli abbracci, sentii le esclamazioni. Con la coda dell’occhio vidi le mura del paradiso dall’altezza vertiginosa e le sue porte. Stavolta vidi gli angeli, meno solidi di tutto il resto, un coro dopo l’altro, attraversare i cieli, liberamente e calandosi a loro piacimento tra la ressa di mortali che attraversava il ponte. Passando dalla visibilità all’invisibilità e viceversa, gli angeli si spostavano, osservavano, salivano armoniosamente per svanire nell’azzurro infinito del cielo.

I suoni del paradiso, che giungevano da dietro le mura, erano fiochi eppure dolorosamente seducenti. Potevo chiudere gli oc­chi e vedere quasi i colori zaffirini! Tutti i canti avevano lo stesso ritornello: «Entrate, venite, entrate, unitevi a noi. Non è più il caos. Questo è il paradiso».

Io però mi trovavo lontano da tutto ciò, in una piccola vallata. Ero seduto tra i fiori selvatici, minuscoli fiori selvatici bianchi e gialli, sulla riva erbosa del ruscello che ogni anima attraversava per entrare in paradiso, solo che lì sembrava un ruscello qualun­que, magnifico e dalla corrente impetuosa. O, meglio, cantava un canto che — dopo fumo e guerra, fuliggine e sangue, tanfo e dolo­re — diceva: «Tutti i ruscelli sono splendidi come questo».

L’acqua cantava con una moltitudine di voci mentre scorreva sulle rocce e giù per minuscole gole, e saliva improvvisamente su rilievi del terreno, tanto che avrebbe potuto ricadere con una mescolanza di fuga e canone. E intanto l’erba chinava il capo per guardare.

Io ero appoggiato al tronco di un albero, quale potrebbe esse­re il pesco se restasse sempre in fiore, con fiori e frutti, così da non esser mai privo di nessuno dei due, e i rami si piegavano verso terra, non in segno di sottomissione bensì di ricchezza e fra­granza, in segno di offerta, a esprimere la fusione di due cicli in un’eterna abbondanza. Più in alto, tra i petali fluttuanti, la cui profusione sembrava inesauribile e mai allarmante, vidi il fugace movimento di minuscoli uccelli. E, dietro, angeli e angeli e ange­li, come se fossero fatti di aria, gli spiriti leggeri, luminosi e scin­tillanti così fiochi da svanire, di tanto in tanto, in un respiro bril­lante del cielo.

Il paradiso degli affreschi; il paradiso dei mosaici. Solo che nessuna forma d’arte può eguagliarlo. Interrogate coloro che so­no venuti e andati; coloro il cui cuore si è fermato su un tavolo operatorio, tanto che le loro anime sono volate in questo giardi­no e poi sono state ricondotte giù nella carne eloquente. Niente può emularlo.

L’aria fresca e dolce mi circondava, rimuovendo piano, uno strato dopo l’altro, la fuliggine e il sudiciume che avevano impre­gnato la mia giacca e la mia camicia. All’improvviso, come se tor­nassi alla vita destandomi da un incubo, infilai una mano sotto la giacca ed estrassi il velo. Lo spiegai e lo tenni sollevato, stringen­done due bordi.

Il viso impresso a fuoco su di esso, gli occhi scuri che mi fissa­vano, il sangue ancora di un rosso brillante, la pelle dalla sfuma­tura perfetta, la profondità quasi olografica, anche se l’intera espressione si muoveva leggermente mentre il velo si agitava nel­la brezza. Nulla era stato macchiato, lacerato o perso.

Mi sentii boccheggiare, e il mio cuore accelerò pericolosa­mente i battiti. Il calore m’inondò le guance.

Gli occhi castani guardavano fisso, come avevano fatto in quel momento, evitando di chiudersi per la soffice stoffa finemente intessuta. Avvicinai a me il velo, poi lo piegai di nuovo, quasi in preda al panico, e stavolta me lo premetti sulla pelle, sotto la ca­micia. Mi sforzai d’infilare tutti i bottoni nelle rispettive asole. La mia camicia era impeccabile, mentre la giacca era sudicia, ben­ché intatta, e tutti i bottoni erano scomparsi, persino quelli che avevano ornato le maniche, quelli che non svolgevano nessuna funzione pratica, ma erano soltanto decorativi. Mi guardai le scarpe: erano rotte e lacere, quasi a brandelli. Quanto sembravano strane, così diverse da qualunque cosa io avessi visto negli ul­timi tempi, fatte di pelle tanto elegante.

Alcuni petali mi caddero tra i capelli. Portai una mano alla te­sta e mi feci cadere sui pantaloni e sulle scarpe una piccola piog­gia di petali, rosa e bianchi.

«Memnoch!» esclamai all’improvviso. Mi guardai intorno. Dov’era? Ero rimasto solo? Molto più in là, la processione di anime felici attraversava il ponte. Le porte si aprivano e si chiu­devano oppure era soltanto un’illusione?

Guardai a sinistra, verso una macchia di ulivi, e là sotto vidi una figura in piedi che all’inizio non riconobbi; poi mi accorsi che era Memnoch, nelle sue sembianze di Uomo Comune. Sem­brava calmissimo, mi guardava, con espressione fissa e tetra; poi l’immagine cominciò a crescere e ad ampliarsi, spuntarono le sue enormi ali nere, le storte zampe caprine e gli zoccoli fessi, e il vi­so angelico scintillò come se fosse fatto di vivo marmo nero. Memnoch, il mio Memnoch, il Memnoch che conoscevo, abbi­gliato ancora una volta come il Demonio.

Non opposi resistenza, non mi coprii il viso; anzi, esaminai i dettagli del suo torace coperto, il modo in cui il tessuto scendeva sopra le orribili zampe pelose. Gli zoccoli affondavano nel terre­no sotto di lui, ma le mani e le braccia erano le sue bellissime ma­ni e braccia; i capelli erano la sua criniera fluente, corvina però. E in tutto il giardino lui rappresentava l’unica assenza totale di co­lore, era opaco, o almeno visibile per me, apparentemente solido.