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Roger, in tutta la sua raffinata eleganza: giacca di seta viola e pantaloni aderenti di ottimo taglio, capelli profumati e mani fre­sche di manicure.

«Lestat», gridò. «Terry è qui, loro sono qui. Lestat.» Si ag­grappò alla mia giacca, gli stessi occhi che avevo visto nel fanta­sma e nell’umano tra le mie braccia, fissi su di me, il suo fiato sul mio viso, la stanza che si dissolveva nel fumo, il fioco spirito di Terry coi suoi luminosi capelli biondi che gli gettava le braccia al collo, l’espressione stupita, le labbra rosa senza parole, l’ala di Memnoch che si abbassava, separandomi da loro, il pavimento che si frantumava con un crac.

«Volevo dire a Roger del velo...» Insistetti. Lottai. Memnoch mi tenne stretto.

«Da questa parte!»

I cieli si squarciarono con un’altra violenta scarica di scintille e le nubi esplosero, scontrandosi, il lampo che brillava sopra le nostre teste, e poi un tonante diluvio di pioggia terribile e ragge­lante.

«Oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio!» gridai. «Questa non può essere la tua scuola! Dio! No!»

«Guarda, guarda

Indicò la figura di Roger a quattro zampe, che si girava come un cane, in mezzo a coloro che aveva ucciso, uomini che lo im­ploravano tendendo le braccia, donne che si strappavano i vestiti per mostrare le ferite, il chiacchierio di voci che cresceva come se il suono dell’inferno stesso potesse improvvisamente esplodere, e Terry — la stessa Terry — con le braccia che gli cingevano ancora il collo. Roger era a terra, la camicia lacerata, scalzo, la giungla che svettava intorno a lui. Alcuni spari risuonarono nel buio. Crepitare di fucili automatici che sputavano i loro innumerevoli proiettili fatali con una furia illimitata. Le luci di una casa tremo­lavano tra i rampicanti, tra gli alberi enormi. Roger si voltò verso di me, cercando di alzarsi, ricadendo, piangendo, le lacrime che gli colavano sulle guance.

«... e ogni atto, a suo modo, Lestat, e io non sapevo... io non sapevo...»

Distinto, orribile e severo, Roger si alzò di fronte a me solo per indietreggiare e perdersi tra gli innumerevoli altri.

Li vedevo in ogni direzione. Gli altri.

Scenari che si sovrapponevano, sfumature di grigio che diven­tavano brillanti o morivano in buia foschia; e, levandosi qua e là dagli orrendi, furiosi, turbolenti campi dell’inferno, le anime purificate. Si udivano il rullare di tamburi, gli strilli penetranti di una tortura insopportabile; si vedeva una massa di uomini con rozze tuniche bianche spinti tra i ceppi ardenti, le loro braccia che si appellavano alle anime che si ritraevano e urlavano per il rimorso, per il terribile atto della consapevolezza.

«Mio Dio, mio Dio, siamo entrambi perdonati!»

Cos’era questo improvviso mulinare del. sudicio vento puzzo­lente?

Le anime salirono verso l’alto con le braccia spalancate, gli in­dumenti improvvisamente strappati o che sbiadivano nelle indi­stinguibili tuniche dei salvati, il tunnel che si apriva.

Vidi la luce, vidi la miriade di spiriti che risalivano disordina­tamente il tunnel verso il fulgore celestiale, il tunnel rotondo e che si ampliava mentre loro ascendevano, e per un misericordio­so momento, un misericordioso, minuscolo istante, i canti del paradiso risuonarono lungo il tunnel come se le sue curve non fossero fatte di vento ma di un materiale solido che poteva far riecheggiare questi canti eterei, e il loro ritmo organizzato, la lo­ro struggente bellezza che penetrava nella catastrofica sofferenza di quel luogo.

«Non lo sapevamo! Non lo sapevamo!» Le voci si alzarono e il tunnel si chiuse.

Inciampai, voltandomi da una parte e dall’altra. Lì i soldati torturavano una giovane donna con le lance, mentre altri piange­vano e cercavano di frapporsi tra la sua forma che si dimenava e i suoi aguzzini. Là alcuni bimbi correvano su gambe grassocce con le manine protese per farsi prendere in braccio da padri, ma­dri, assassini piangenti.

E, inchiodato a terra, il corpo coperto dall’armatura, la barba lunga e rossa, la bocca aperta in un urlo, c’era un uomo che ma­lediceva Dio, malediceva il Diavolo e malediceva il destino. «Non lo farò, non lo farò, non lo farò!»

«E chi è in piedi dietro quelle porte», disse un triste fantasma servizievole, una donna, i suoi splendidi capelli che le scintillava­no intorno con un candore etereo, la sua mano soffice sul mio viso. «Guarda là...» Le doppie porte dell’ascensore sul punto di aprirsi, le pareti coperte di libri. «I tuoi morti, mio caro, i tuoi morti, tutti coloro che hai ucciso!»

Fissai il soldato supino, che ruggiva con la sua bocca bordata dalla barba rossa: «Mai, non dirò mai che era giusto, mai, mai...»

«Non i miei morti», gridai. Mi voltai e scappai via. Inciampai e caddi di nuovo a faccia in giù sulla morbida ressa di corpi. Più in là, le rovine di una città si consumavano nel fuoco; muri crollavano da ogni parte; il cannone sparò di nuovo e, ancora una volta, un gas nocivo riempì l’aria, la gente cadde tossendo e ansi­mando violentemente, il coro di non lo sapevamo si fuse in un istante di ordine che era peggiore del caos!

«Aiutatemi!» gridai più volte. Non provai mai un simile sol­lievo nell’urlare, una codardia così pura e abbandonata, gridare verso il paradiso in questo luogo dimenticato da Dio dove le gri­da erano l’aria stessa, e dove nessuno prestava ascolto, nessuno tranne i sorridenti morti servizievoli.

«Impara, mio caro.»

«Impara.» Sussurri simili a baci. Uno spettro, un indiano, la testa avvolta in un turbante, viso scurito. «Impara, giovanotto.»

«Guarda su, osserva i fiori, osserva il cielo...» Un fantasma servizievole, una donna, danzò in cerchio, il suo abito bianco che entrava e usciva dalle nubi e da zampilli di fuliggine e sporcizia, i piedi che affondavano nella marna, ma piroettavano ancora con sicurezza.

«Non prendermi in giro, non c’è nessun giardino qui!» sbraitai. Ero in ginocchio. I miei abiti erano stracciati, ma sotto la ca­micia avevo il velo! Lo avevo.

«Prendi le mie mani...»

«No, lasciami andare!» Infilai la mano sotto la giacca per co­prire il velo. Una fioca figura mi si avvicinò con passo malfermo, le mani protese. «Tu, maledetto ragazzo, osceno ragazzo, tu, nel­le strade di Parigi, come Lucifero stesso pieno di luce dorata, tu! Pensa a cosa mi hai fatto!»

La taverna prese forma, il ragazzo che cascava all’indietro sot­to l’impatto del mio pugno mortale, i barili che cadevano e il grugnito degli uomini scarmigliati e ubriachi che si gettavano su di me.

«No, basta», tuonai. «Allontanatelo da me. Non mi ricordo di lui. Non l’ho mai ucciso. Non ricordo, vi dico, non riesco... Claudia, dove sei? Dove sei tu, quella cui ho fatto un torto! Claudia! Nicolas, aiutami!»

Ma si trovavano forse lì, persi in quel torrente, oppure se n’e­rano andati, ormai da tempo, passando nel tunnel, verso la sfol­gorante gloria soprastante, verso i canti benedetti che tessevano il silenzio nelle loro stesse corde e melodie? Oh, fa’ che siano là, ti prego, lassù.

Le mie grida avevano perso qualunque dignità, eppure quan­to suonavano sprezzanti alle mie orecchie. «Qualcuno mi aiuti! Aiuto!»

«Devi prima morire, per servirmi?» chiese Memnoch. Si levò davanti a me, l’angelo delle tenebre nella sua forma di granito, le ali spiegate. Oh, sì, cancella gli orrori dell’inferno, ti prego, persino in questa forma, la più mostruosa! «Urli all’inferno come cantavi in paradiso. Questo è il mio regno, questo è il nostro la­voro. Ricorda la luce!»

Ricaddi all’indietro sulla spalla, facendomi male al braccio si­nistro, ma rifiutandomi di staccare la mano destra dal velo. Vidi il cielo azzurro sopra di me in un lampo e i fiori di pesco spuntati dalle foglie verdi dell’albero mentre già i deliziosi frutti erano fis­sati ai rami.