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Egwene urlò, aprendosi all’Unico Potere e attingendone quanto più riusciva a trattenerne. Lo lasciò andare come un muro di fiamme verso gli Sharani che erano attorno a lei ora. Poco prima avevano occupato le Alture, tenendo le Aes Sedai sotto, ma adesso era follia.

Lei li assalì con il Potere, stringendo forte il sa’angreal di Vora. Li avrebbe distrutti! Luce! Faceva male. Faceva così male.

«Madre!» urlò Silviana, prendendola per il braccio. «Sei fuori controllo, Madre! Ucciderai la tua stessa gente. Ti prego!»

Egwene respirava a rantoli. Lì vicino, un gruppo di Manti Bianchi passò arrancando, portando i feriti giù dalla collina.

Così vicino! Oh, Luce! Lui non c’era più!

«Madre?» disse Silviana. Egwene la udì a malapena. Si toccò la faccia e vi trovò lacrime.

Era stata audace prima. Aveva affermato che avrebbe potuto continuare a combattere nonostante la perdita. Quanto era stata ingenua. Lasciò morire il fuoco di saidar dentro di lei. Estinto quello, la vita la abbandonò. Si afflosciò da un lato e avvertì delle mani portarla via. Attraverso un passaggio, lontano dal campo di battaglia.

Tam usò la sua ultima freccia per salvare un Manto Bianco. Non era qualcosa che si era mai immaginato di fare, ma la fece. Il Trolloc con la testa di lupo barcollò all’indietro con la freccia conficcata nell’occhio, rifiutando di andar giù finché il giovane Manto Bianco non si tirò su dal fango e gli colpì le ginocchia. I suoi uomini adesso erano sui camminamenti della palizzata, scagliando raffiche di frecce contro i Trolloc che si erano precipitati per il letto del fiume. I loro numeri erano esauriti, ma ce n’erano ancora tanti.

Fino a questo punto, la battaglia era andata bene. Le forze combinate di Tam erano schierate con forza lungo il fiume dal lato shienarese. Più a valle, la Legione del Drago, compagnie di balestrieri e cavalleria pesante, arginava l’avanzata dei Trolloc. Lo stesso accadeva più a monte del fiume, con arcieri, fanti e cavalleria che fermavano l’incursione dei Trolloc sull’alveo. Finché i rifornimenti non avessero cominciato a scarseggiare e Tam fosse stato costretto a ritirare i suoi uomini alla relativa sicurezza della palizzata.

Tam guardò da una parte. Abell alzò il suo arco, scrollando le spalle. Anche lui aveva terminato le frecce. Su e giù per il camminamento, gli uomini dei Fiumi Gemelli sollevarono i loro archi. Niente frecce.

«Non ne arriveranno altre» disse Abell piano. «Il ragazzo ha detto che quell’infornata era l’ultima.»

L’armata di Manti Bianchi combatteva disperatamente, mischiata con membri della Guardia del Lupo di Perrin, ma stavano venendo spinti indietro dal letto del fiume a ondate. Combattevano su tre lati, e un’altra truppa di Trolloc aveva appena fatto il giro per circondarli del tutto. Lo stendardo di Ghealdan sventolava più vicino alle rovine. Arganda teneva quella posizione assieme a Nurelle e a ciò che restava della Guardia Alata.

Se fosse stata qualunque altra battaglia, Tam avrebbe ordinato ai suoi di risparmiare le frecce per coprire una ritirata. Non ci sarebbe stata nessuna ritirata oggi, e l’ordine di tirare era stato giusto: i ragazzi avevano preso il tempo necessario per ogni colpo. Probabilmente avevano ucciso migliaia di Trolloc durante le ore di combattimento.

Ma cos’era un ardere senza il suo arco? Comunque un uomo dei Fiumi Gemelli, pensò Tam. Sempre non disposto a lasciare che questa battaglia fosse perduta.

«Giù dai camminamenti, mettetevi in formazione con le armi» ordinò Tam ai ragazzi. «Lasciate gli archi qui. Li torneremo a prendere quando ci porteranno altre frecce.»

Non sarebbero arrivate altre frecce, ma gli uomini dei Fiumi Gemelli sarebbero stati più contenti fingendo che potevano tornare ai loro archi. Si schierarono su file come Tam aveva insegnato loro, armati di lance, asce, spade, perfino qualche falce. Tutto ciò che avevano a portata di mano, assieme a scudi per quelli con asce o spade, e buone armature di cuoio per tutti. Niente picche, purtroppo. Dopo che la fanteria pesante era stata equipaggiata, non ne era rimasta nessuna.

«Serrate i ranghi» disse loro Tam. «Formate due cuspidi. Spingeremo contro i Trolloc attorno ai Manti Bianchi.» La miglior cosa da fare — almeno la migliore che a Tam veniva in mente — era colpire quei Trolloc che avevano appena aggirato i Manti Bianchi, frammentarli e aiutare i Manti Bianchi a liberarsi.

Gli uomini annuirono, anche se probabilmente avevano pochissima comprensione della tattica. Non aveva importanza. Fintantoché avessero mantenuto ranghi disciplinati come Tam aveva insegnato loro.

Iniziarono ad avanzare, di corsa, e a Tam questo ricordò un altro campo di battaglia. Neve che sferzava la faccia, soffiata da venti terribili. In un certo senso, era stato quel campo di battaglia a far cominciare tutto questo. Ora finiva qui.

Tam si mise sulla punta della prima cuspide, poi mise Deoan — un uomo di Deven Ride che aveva servito nell’esercito andorano — sulla punta dell’altro. Tam guidò i suoi uomini avanti speditamente, per non lasciare che loro — o lui — riflettessero troppo su cosa stava per accadere.

Mentre si avvicinavano agli imponenti Trolloc, con le loro spade, armi ad asta e asce da combattimento, Tam cercò la fiamma e il vuoto. Il nervosismo scomparve. Tutte le emozioni evaporarono. Sfoderò la spada che Rand gli aveva dato, quella con i Draghi dipinti sul fodero. Era l’arma migliore che Tam avesse mai visto. Quelle pieghe nel metallo sussurravano un’origine antica. Pareva un’arma troppo buona per Tam. Aveva provato lo stesso per ogni spada che aveva usato.

«Ricordate, mantenete la formazione!» urlò Tam ai suoi uomini. «Non lasciate che ci disgreghino. Se qualcuno cade, un uomo avanza e prende il suo posto mentre un altro trascina l’uomo caduto al centro della cuspide.»

Quelli annuirono in risposta e poi attaccarono i Trolloc alle spalle, dove avevano circondato i Figli della Luce al fiume.

La formazione colpì, scagliandosi in avanti. Gli enormi Trolloc si voltarono per combattere.

Fortuona cacciò con un gesto la so’jhin che cercava di cambiare i suoi abiti regali. Puzzava di fumo a causa del fuoco, e aveva le braccia bruciate ed escoriate in diversi punti. Non avrebbe accettato la Guarigione delle damane. Fortuona pensava che la Guarigione fosse uno sviluppo utile — e alcuni Seanchan stavano modificando il loro atteggiamento al riguardo — ma lei non era certa che l’imperatrice dovesse sottostare a essa. Inoltre le sue ferite non erano terribili.

Sorveglianti della Morte inginocchiati davanti a lei avrebbero avuto bisogno di qualche forma di punizione. Questa era la seconda volta che avevano permesso a un assassino di raggiungerla e, per quanto non li incolpasse per il fallimento, negare loro una punizione sarebbe equivalso a negare il loro onore. Le faceva torcere il cuore nel petto, ma sapeva cosa avrebbe dovuto fare.

Diede l’ordine di persona. Avrebbe dovuto farlo Selucia, come sua Parola, ma in questo momento le sue ferite stavano venendo curate. E Karede meritava il piccolo onore di ricevere il suo ordine di essere giustiziato da Fortuona stessa.

«Andrete ad affrontare le marath’damane nemiche direttamente» ordinò a Karede. «Tutti quelli di voi che erano in servizio. Combattete con valore per l’impero e cercate di uccidere le marath’damane del nemico.»

Fortuona poté vedere Karede rilassarsi. Era un modo per continuare a servire; probabilmente si sarebbe ucciso cadendo sulla propria spada, se gli fosse stata data scelta. Questo era un atto di pietà.

Voltò le spalle all’uomo che l’aveva accudita durante la sua giovinezza, l’uomo che aveva sfidato ciò che ci si aspettava da lui. Tutto per lei. Più tardi Fortuona avrebbe trovato una penitenza per ciò che doveva fare. A questo punto, gli avrebbe garantito l’onore che poteva.

«Darbinda» disse, voltandosi verso la donna che insisteva per chiamarsi ‘Min’ malgrado l’onore di un nuovo nome che Fortuona le aveva concesso. Voleva dire ‘Ragazza delle Immagini’ nella Lingua Antica. «Tu mi hai salvato la vita e forse anche quella del Principe dei Corvi. Ti nomino del Sangue, Occhi del Fato. Che il tuo nome sia venerato per generazioni a venire.»