Darbinda incrodò le braccia. Quanto era simile a Knotai. Caparbiamente umili, questi abitanti del continente. Erano realmente fieri — fieri — del loro retaggio da popolani. Sconcertante.
Knotai stesso sedeva su un ceppo vicino, a ricevere rapporti di battaglia e sbraitare ordini. La battaglia delle Aes Sedai per le Alture occidentali stava piombando nel caos. Lui incontrò gli occhi di Fortuona lungo la breve distanza che li separava, poi annuì una volta.
Se c’era una spia — e Fortuona sarebbe stata sorpresa se non ce ne fosse stata una — adesso era il momento di ingannarla. Tutti quelli che erano sopravvissuti all’attacco si erano radunati lì attorno. Fortuona aveva insistito per averli vicino, all’apparenza per ricompensare quelli che l’avevano servita bene e per dispensare punizioni a coloro che non lo avevano fatto. Ogni guardia, servitore e nobile poteva sentirla quando parlava.
«Knotai,» disse lei «dobbiamo ancora discutere cosa dovrei fare con te. I Sorveglianti della Morte sono incaricati della mia sicurezza, ma tu sei incaricato della difesa di questo accampamento. Se sospettavi che il nostro centro di comando non fosse sicuro, perché non hai parlato prima?»
«Stai dannatamente insinuando che sia colpa mia?» Knotai si alzò e interruppe i rapporti degli esploratori con un gesto.
«Ti ho dato il comando qui» disse Fortuona. «La responsabilità definitiva per il fallimento è tua, dunque, o no?»
Lì vicino, il generale Galgan si accigliò. Lui non la vedeva a questo modo. Altri guardarono verso Knotai con occhi accusatori. Nobili sicofanti: l’avrebbero incolpato perché non era nato seanchan. Sorprendente come Knotai avesse convertito Galgan così rapidamente. Oppure Galgan stava esponendo le sue emozioni di proposito? Era lui la spia? Forse aveva manipolato Suroth, oppure poteva semplicemente essere un infiltrato di riserva se Suroth avesse fallito.
«Non mi assumerò la responsabilità per questo, Tuon» disse Knotai. «Sei stata tu quella che ha dannatamente insistito per osservare dall’accampamento quando avresti potuto essere in qualche posto sicuro.»
«Forse avrei dovuto fare proprio quello» replicò lei con freddezza. «Quest’intera battaglia è stata un disastro. Perdi terreno in ogni momento. Parli in tono spensierato e scherzi, rifiutando il protocollo adeguato; non penso che tu ti ci accosti con la solennità che si addice alla tua posizione.»
Knotai rise. Era una risata fragorosa, genuina. Era bravo in questo. Fortuona pensò di essere Tunica a vedere le linee di fumo gemelle che si levarono proprio dietro di lui dalle Alture. Un presagio appropriato per Knotai: un grosso azzardo avrebbe dato grandi ricompense. O richiesto un costo enorme.
«Ne ho abbastanza di te» disse Knotai, agitando una mano verso di lei. «Tu e le tue dannate regole seanchan non fate altro che mettervi in mezzo.»
«Allora anch’io ne ho abbastanza di te» disse Fortuona, sollevando la testa. «Non avremmo mai dovuto unirci a questa battaglia. Faremmo meglio a prepararci a difendere le nostre terre a sudovest. Non ti permetterò di gettare via le vite dei miei soldati.»
«Vai, allora» ringhiò Knotai. «Cosa me ne importa?»
Lei si girò e si avviò. «Venite» disse agli altri. «Radunate le nostre damane. Tutti noi, tranne quei Sorveglianti della Morte, Viaggeremo all’accampamento del nostro esercito all’Erinin, poi torneremo a Ebou Dar. Combatteremo la vera Ultima Battaglia lì una volta che questi sciocchi avranno indebolito la Progenie dell’Ombra per noi.»
La sua gente la seguì. Lo stratagemma era stato convincente? La spia l’aveva vista consegnare alla morte uomini che la amavano; questo avrebbe mostrato che era avventata? Avventata e tanto altezzosa da togliere le sue truppe a Knotai? Era abbastanza plausibile. In un certo senso, voleva fare come aveva detto e combattere al Sud.
Ma farlo, naturalmente, avrebbe voluto dire ignorare il cielo in tempesta, la terra che tremava e il combattimento del Drago Rinato. Questi non erano presagi che poteva ignorare.
La spia non lo sapeva. Non poteva conoscerla. La spia avrebbe visto una giovane donna, tanto sciocca da voler combattere per conto suo. Così sperava Fortuona.
Il Tenebroso ordì una rete di possibilità attorno a Rand.
Rand sapeva che questa contesa tra loro — la lotta per ciò che poteva essere — era vitale per l’Ultima Battaglia. Rand non poteva intessere il futuro. Lui non era la Ruota, nemmeno lontanamente. Nonostante tutto quello che gli era successo, era ancora soltanto un uomo.
Eppure in lui c’era la speranza dell’umanità. L’umanità aveva un destino, una scelta per il proprio futuro. Il sentiero che avrebbero intrapreso… Sarebbe stata questa battaglia a deciderlo, con la sua volontà opposta a quella del Tenebroso. Finora, quello che poteva essere poteva diventare quello che sarebbe stato. Interrompersi ora avrebbe significato consentire al Tenebroso di scegliere quel futuro.
Osserva, disse il Tenebroso mentre le linee di luce si univano e Rand entrava in un altro mondo. Un mondo che non era ancora accaduto, un mondo che probabilmente poteva diventare reale molto presto.
Rand si accigliò, alzando lo sguardo verso il cielo. In questa visione non era rosso, il paesaggio non era in rovina. Si trovava a Caemlyn, per quanto ne sapesse. Oh, c’erano differenze. Carri a vapore sferragliavano lungo le strade, mischiandosi con il traffico di carri tirati da cavalli e folle che camminavano.
La città si era espansa oltre le nuove mura: poteva vederlo dalla posizione elevata della collina centrale su cui si trovava. Poteva perfino distinguere il punto in cui Talmanes aveva fatto un buco nel muro con i Draghi. Non era stato riparato. Invece la città si era riversata attraverso di esso. Degli edifici ricoprivano quelli che una volta erano stati campi fuori dall’abitato.
Corrucciato, Rand si voltò e si avviò lungo la strada. A che gioco stava giocando il Tenebroso? Di sicuro questa città normale, prospera perfino, non poteva far parte dei suoi piani per il mondo. La gente era pulita e non pareva oppressa. Rand non vedeva alcun segno della depravazione che aveva caratterizzato il mondo precedente che il Tenebroso aveva creato per lui.
Incuriosito, si avvicinò a un banchetto dove una donna vendeva frutta. Quella donna snella gli rivolse un sorriso invitante, gesticolando verso le sue mercanzie. «Benvenuto, mio buon signore. Io sono Renel e il mio negozio è una seconda casa per tutti quelli che cercano la frutta migliore da tutto il mondo. Ho pesche fresche da Tear!»
«Pesche!» disse Rand, sbigottito. Tutti sapevano che erano velenose.
«Ah! Non temere, mio buon signore! A queste è stata rimossa la tossina. Sono sicure quanto io sono onesta.» La donna sorrise, prendendone un morso per dimostrarglielo. Quando lo fece, una mano sudicia comparve da sotto il banco di frutta: sotto era nascosto un monello di strada, un ragazzino che Rand non aveva notato prima.
Il ragazzino agguantò un frutto rosso di un tipo che Rand non riconobbe, poi schizzò via. Era così magro che Rand poteva vedere le costole premere contro la pelle della sua forma troppo piccola, e correva su gambe tanto esili che era un miracolo che riuscisse a camminare.
La donna continuò a sorridere a Rand mentre allungava la mano da un lato, poi tirava fuori una piccola verga con una leva su un lato per il dito. Tirò la leva e la verga crepitò.
Il monello morì in uno schizzo di sangue. Cadde a terra bocconi. La gente gli girò attorno nello scorrere del traffico, anche se qualcuno — un uomo con molte guardie — raccolse il frutto. Lo ripulì del sangue e prese un morso, continuando per la sua strada. Pochi istanti dopo, un carro a vapore passò sopra il cadavere, schiacciandolo nella strada fangosa.