Tam si sarebbe fermato prima di colpire. Rand avrebbe perso il duello.
Lasciar andare.
Rand cambiò la sua stretta sulla spada. Non sapeva perché; fece quello che sentiva giusto. Quando Tam si avvicinò, Rand gettò in alto il braccio sinistro per stabilizzare la mano mentre ruotava la spada di lato. Tam impattò, con Tarma che scivolava giù per la spada di Rand, ma non facendogli mollare la presa.
Il colpo di ritorno di Tam giunse come previsto, ma colpì il gomito di Rand, il gomito del braccio inutile. Non così inutile dopotutto. Bloccò la spada in maniera efficace, anche se lo schianto di quel colpo mandò un tremito di dolore lungo il braccio di Rand.
Tam si immobilizzò sgranando gli occhi, prima per la sorpresa per essere stato bloccato, poi apparentemente preoccupato per aver assestato un forte colpo al braccio di Rand. Probabilmente gli aveva fratturato Tosso.
«Rand» disse Tam. «Io...»
Rand fece un passo indietro, piegò il braccio ferito dietro la schiena e sollevò la spada. Inalava gli odori intensi di un mondo ferito, ma non morto.
Attaccò. ‘Il martin pescatore colpisce tra le ortiche’. Rand non la scelse: accadde. Forse era la sua postura, la spada protesa, l’altro braccio piegato dietro la schiena. Quello lo condusse facilmente a quella forma offensiva.
Tam bloccò, cauto, facendo un passo di lato nell’erba bruna. Rand ruotò di lato, fluendo nella sua forma successiva. Smise di cercare di spegnere il suo istinto e il suo corpo si adattò alla sfida. Sicuro all’interno del vuoto, non aveva bisogno di domandarsi come.
La competizione continuò sul serio, ora. Spade cozzavano con colpi bruschi, Rand teneva la mano dietro la schiena e percepiva quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Non combatteva bene come un tempo. Non poteva: alcune forme per lui erano impossibili e non poteva colpire con la stessa forza di una volta.
Eguagliava Tam. Fino a un certo punto. Qualunque spadaccino poteva capire qual era il migliore mentre combattevano. O, almeno, poteva capire chi era in vantaggio. Era Tam a esserlo in quel momento. Rand era più giovane e più forte, ma Tam era davvero solido. Lui sì che si era esercitato a combattere con una mano sola. Rand ne era certo.
Non gli importava. Questa concentrazione... gli era mancata questa concentrazione. Con così tanto di cui preoccuparsi, così tanti fardelli da portare, non era stato in grado di dedicarsi a qualcosa di semplice come un duello. Ora l’aveva trovata e vi si era riversato dentro.
Per un po’, non fu il Drago Rinato. Non fu nemmeno un figlio con suo padre. Era uno studente con il suo maestro.
In questo, si ricordò che, per quanto fosse diventato abile, per quanto ora si ricordasse parecchie cose, c’era ancora molto che poteva apprendere.
Continuarono a duellare. Rand non contava chi avesse vinto quale scambio; combatteva e basta e si beava di quella pace. Alla fine si ritrovò esausto nel modo buono, non logorato come aveva cominciato a sentirsi di recente. Era la spossatezza di un lavoro ben fatto.
Sudato, Rand sollevò la sua spada da allenamento verso Tam, indicando che non ce la faceva più. Tam indietreggiò, sollevando la spada a sua volta. L’uomo più anziano aveva un sorriso in volto.
Lì vicino, in piedi accanto alle lanterne, un gruppo di Custodi iniziò ad applaudire. Non un vasto pubblico — solo sei uomini — ma Rand non li aveva notati. Le Fanciulle sollevarono le lance in segno di saluto.
«È stato un grosso peso, vero?» chiese Tam.
«Che peso?» ribatté Rand.
«Quello di aver perso la mano.»
Rand abbassò lo sguardo sul moncherino. «Sì. Credo proprio che lo sia stato.»
Il passaggio segreto di Tylin conduceva ai giardini, aprendosi in un foro strettissimo non lontano da dove Mat aveva iniziato la sua scalata. Strisciò fuori, togliendosi la polvere da spalle e ginocchia, poi allungò il collo dietro di sé e guardò il balcone molto più in alto. Era salito fino alla cima dell’edificio, poi era strisciato fuori dalle sue viscere. Forse in tutto quello c’era una lezione. Forse era che Mat avrebbe dovuto cercare dei passaggi segreti prima di decidere di scalare un maledetto edificio di quattro piani.
Entrò nei giardini senza far rumore. Le piante non se la passavano bene. Quelle felci avrebbero dovuto avere molte più fronde e gli alberi erano nudi come una Fanciulla nella tenda della sauna. Non c’era da meravigliarsi. L’intera terra perdeva vigore più di un ragazzo senza una compagna di ballo a Bel Tine. Mat era piuttosto certo che la colpa fosse di Rand. Di Rand o del Tenebroso. Mat poteva far risalire ogni dannato problema della sua vita all’uno o all’altro. Quei maledetti colori…
Il muschio viveva ancora. Mat non aveva mai sentito che il muschio venisse usato in un giardino, ma avrebbe potuto giurare che qui era stato fatto crescere sulle rocce secondo dei disegni. Forse, quando tutto quanto moriva, i giardinieri usavano quello che riuscivano a trovare.
Dovette effettuare un po’ di ricerche, facendo capolino tra cespugli avvizziti e oltre aiole morte per trovare Tuon. Si era aspettato di trovarla seduta pacificamente a meditare, ma avrebbe dovuto sapere che non poteva essere così.
Mat si accucciò accanto a una felce, non visto dalla dozzina circa di Sorveglianti della Morte che stavano attorno a Tuon in un anello mentre lei si muoveva in una serie di pose da combattimento. Era illuminata da un paio di lanterne che emanavano un bagliore azzurro, strano e costante. Qualcosa bruciava all’interno, ma non era una fiamma normale.
La luce brillava sulla sua pelle liscia e morbida, che aveva la tonalità di terra buona. Indossava un a’solma pallido, un abito lungo diviso sui lati, mostrando i gambali azzurri al di sotto. Tuon aveva una corporatura esile; una volta Mat aveva commesso Terrore di pensare che quello fosse un segno di fragilità. Non era così.
Si era rasata la testa come era appropriato, ora che non si stava più nascondendo. Per quanto fosse strano, quella testa calva le stava bene. Si muoveva in quel bagliore azzurro, procedendo in una sequenza di forme di combattimento corpo a corpo, gli occhi chiusi. Pareva stesse duellando con la sua stessa ombra.
Mat preferiva un buon coltello — o, meglio, la sua ashandarei — al combattere con le mani. Quanto più spazio aveva tra sé e un tizio che tentava di ucciderlo, tanto meglio. Ma a Tuon non pareva servire nessuna delle due cose. Osservandola, Mat si rese conto di quanto era stato fortunato la notte in cui l’aveva catturata. A mani nude, lei era letale.
Tuon rallentò, agitando le mani di fronte a sé in uno schema delicato, poi le fece scattare rapidamente di lato. Inspirò e le portò dall’altra parte, ruotando il corpo intero.
Mat l’amava?
Quella domanda lo mise a disagio. Gli rodeva ai margini della mente ormai da settimane, come un ratto che cercasse di arrivare alle granaglie. Non era il tipo di domanda che Matrim Cauthon si sarebbe dovuto porre. Matrim Cauthon si preoccupava solo della ragazza che aveva sul ginocchio e del suo prossimo lancio di dadi. Domande su questioni come l’amore era meglio lasciarle agli Ogier, che avevano tempo per mettersi seduti e guardare gli alberi crescere.
Lui l’aveva sposata. Quello era stato un incidente, giusto?
I dannati serpenti gli avevano detto che l’avrebbe fatto. E lei l’aveva sposato a sua volta. Mat non sapeva ancora perché. Aveva qualcosa a che fare con i presagi di cui lei aveva parlato?
Il loro corteggiamento era stato più un gioco che un idillio. A Mat piacevano i giochi, e giocava sempre per vincere. La mano di Tuon era stata il premio. Ora che l’aveva ottenuta, cosa doveva fard?
Lei continuò con le sue forme, muovendosi come un giunco al vento. Un’inclinazione da questa parte, poi un’ondata di movimento dall’altra. Gli Aiel definivano il combattimento una danza. Cosa avrebbero pensato di questo? Tuon si muoveva con la stessa grazia di qualunque Aiel. Se la battaglia era una danza, buona parte di essa era fatta al tempo di musica di una sala comune chiassosa. Questa si svolgeva alla melodia cadenzata di un Mastro cantore.