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Carlos cominciò a toccarla più spesso.

All’inizio, lei accettò la cosa nello stesso modo in cui l’accettava sua madre, con rassegnazione. Sentiva lo sguardo di sua madre su di sé, quando Carlos la prendeva sulle ginocchia per accarezzarla. Lui aveva delle mani enormi, simili ad animali senza pelo, o a delle talpe. Si muovevano a caso, secondo il proprio capriccio. La toccavano e l’accarezzavano. Generalmente, dopo che lei aveva sopportato per un po’, l’uomo si alzava di colpo, la guardava con rabbia come se avesse fatto qualcosa di male, e poi portava sua madre nell’altra stanza.

Sua madre se ne scusò, un giorno. Erano sole. La baracca galleggiante ondeggiava dolcemente, la pioggia batteva contro il tetto e le pompe di sentina brontolavano sotto il pavimento. — Mi dispiace — disse sua madre. — Non mi aspettavo che succedesse…

La bambina sentì crescere in lei un’ondata di collera, immensa e inaspettata. — Allora fallo andare via! — Rimase stupita delle sue stesse lacrime. — Digli di andarsene!

Sua madre l’abbracciò e cercò di confortarla. — Non è così facile. Vorrei che lo fosse. Mi dispiace, davvero. È difficile stare da soli, anche se tu non lo capisci. È stato molto difficile per me. Pensavo che lui ci avrebbe aiutate. Ne ero convinta. — Le accarezzò i capelli. — Pensavo che ci avrebbe voluto bene.

Quella sera, quando Carlos cominciò a toccarla, sua madre le disse di andare nella sua camera. Attraverso la porta lei udì le voci dei due adulti alzarsi di tono. Si sentì il rumore di una zuffa e infine la porta sbatté forte. Lei attese in silenzio, ma non udì nessun altro rumore. Aveva paura di andare a vedere. Alla fine si addormentò, tremando nel sonno.

Il mattino dopo Carlos la guardò con aria minacciosa e lasciò la baracca senza parlare. Sua madre aveva un grosso livido sulla guancia. Ogni tanto se lo toccava, quasi con meraviglia, come se fosse spuntato per magia. La sua faccia, con l’aggiunta del livido, sembrava terribilmente invecchiata. La bambina la guardò con aria sconcertata. Da quanto tempo sua madre aveva tutte quelle rughe attorno agli occhi? Da quanto tempo la sua pelle era diventata crespa e avvizzita sotto la gola?

Adesso era lei a sentire il dovere di scusarsi. Ma la stanza era appesantita da un silenzio greve e lei non sapeva bene come cominciare. Fu un disastro, fin dalla prima parola.

— Mama, mi dispiace…

— Ti dispiace! — Sua madre si voltò verso di lei. Alcune gocce di grasso schizzarono dai fornelli e macchiarono sfrigolando il pavimento. — Ti dispiace! Mio Dio! Se non fosse stato per te…

Si portò la mano alla bocca, ma ormai era troppo tardi. La frase le era sfuggita e la bambina la tenne bene a mente. Le parole erano come carboni ardenti: non si poteva toccarli, eppure destavano un grande interesse. Lei ne rimase al tempo stesso colpita e curiosamente compiaciuta. Compiaciuta, perché finalmente cominciava a capire qualcosa. Era così semplice! Ora tutto si spiegava. Si spiegavano le occhiate strane che Carlos le aveva rivolto, e anche il livido sulla guancia di sua madre. Lei ne era la causa. Si trovava al centro della tempesta. Lei aveva tentato Carlos in qualche modo, lo aveva sedotto senza volerlo. Di certo non lo aveva programmato. Eppure lo aveva tentato, e Carlos aveva sfogato la propria rabbia e la propria frustrazione nell’unico modo che conosceva, prendendosela con sua madre. A letto. E a pugni.

La bambina si disse che quella era una riflessione ormai adulta, di cui doveva essere orgogliosa. Non era più una bambina.

Capì anche che non era poi così brava, dopotutto.

Byron si chinò verso il monitor del telefono, assorto. Keller non riusciva a staccare gli occhi da Teresa. Non l’aveva mai vista così. I suoi occhi si muovevano incessantemente sotto le palpebre chiuse e le lacrime le rigavano le guance.

Era sconvolgente. Doveva fare qualcosa. Non poteva lasciare che le succedesse una cosa simile.

Se qualcuno è in pericolo bisogna aiutarlo, pensò sopraffatto dall’angoscia. Lo aveva imparato. Molto tempo prima.

Byron distolse l’attenzione dal telefono e si girò. — Non farlo, Ray…

Ma Keller aveva già steso le mani verso di lei.

L’incendio ebbe origine in un deposito di carburante vicino alla parete della diga.

In seguito, la gente disse che era stato inevitabile. La Città Galleggiante era dotata solo delle strutture pubbliche più elementari. Non esistevano piani regolatori, né regolamenti edilizi, né commissioni di sicurezza. Era una città di legno e cartone. In alcuni punti, il carburante fuoriuscito aveva coperto completamente l’acqua tra le fabbriche e le barche da abitazione. L’incendio cominciò come un banale incidente industriale causato da una torcia all’acetilene. In breve, divenne qualcosa di terrificante.

Quel giorno, la bambina si trovava a casa. Carlos era al lavoro e sua madre riparava l’intonaco della cucina. C’era il sole. Lei salì sul tetto in lamiera della baracca e rimase sorpresa nel vedere un pennacchio di fumo spuntare a nord, dalle parti della diga, che insudiciava la cupola azzurra del cielo. Il pennacchio sembrava perfettamente verticale; in realtà, il vento lo spingeva esattamente nella sua direzione.

Lei ne rimase affascinata.

Restò a guardarlo per un po’, canticchiando piano, accarezzata dai raggi del sole. Il pennacchio di fumo a poco a poco si allargò e divenne quasi un muro, un’accozzaglia di nuvole che oscurarono il cielo. Mettendosi in punta di piedi, a lei parve di vedere addirittura le fiamme, ancora molto lontane, che si alzavano dalle baracche galleggianti parecchi chilometri più in là.

Poco prima di mezzogiorno cominciò a cadere una sottile pioggia di cenere.

Sua madre la chiamò, e dato che lei non rispondeva, salì la scala che portava al tetto. — Santo cielo, tesoro! Pensavo che ti fossi persa. Pensavo…

— Guarda — la interruppe lei. — Un incendio.

Sua madre rimase immobile per un attimo, con il grembiule macchiato mosso dal vento, che nel frattempo era diventato sempre più forte e secco. Poi si fece il segno della croce in silenzio e strinse la mano bruna sul braccio della figlia. Quando parlò, la sua voce era priva di espressione. — Vieni ad aiutarmi.

Mentre scendevano, un elicottero della Città di Los Angeles passò con fragore sopra la loro testa, dirigendosi verso il fuoco. Virò e rimase sospeso nel cielo per qualche secondo.

La bambina avvertì il primo brivido di paura.

Sua madre borbottava qualcosa tra sé. Cominciò a muoversi a grandi passi sulle mattonelle sbrecciate, accatastando di tutto su un lenzuolo, al centro della stanza. Vestiti, documenti della previdenza sociale, cibo in scatola. Sbalordita, la bambina guardò fuori dall’unica finestra. Sui ponti mobili si erano formati capannelli di persone che fissavano con grande apprensione il manto di fumo nero che oscurava ormai completamente il cielo.

Sua madre la tirò via. — Non possiamo più aspettare. — Aveva la voce rotta e si guardava intorno con grande nervosismo. La bambina capì, ed era un’altra intuizione da adulta, che sua madre doveva aver avuto la stessa espressione da animale spaventato al momento di attraversare il confine messicano.

— Lo aspetterei, capisci? Carlos. Ma non c’è più tempo.

Raccolse le quattro cocche del lenzuolo chiudendovi dentro i loro miseri averi e trasportò il fagotto fino alla piccola motolancia ancorata sotto casa. Era poco più di una canoa, con un solo motore avvitato a poppa, e rollò sotto il peso imprevisto. La baracca si affacciava su uno degli affluenti minori di un canale più grande, ma le sue acque di solito tranquille erano già affollate di barche. In alcune, la gente piangeva. La bambina si chiese che cosa fosse quella nuova catastrofe che stava sconvolgendo la sua vita. La cenere volteggiava attorno a lei come neve.