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Si risvegliò in un campo della Croce Rossa, sulla terraferma, con il viso ustionato, i polmoni gonfi di liquido e una febbre che la divorava. Ma viva. Era una nuova creatura, ora, ignota e anestetizzata. Senza storia, senza nome e con un’unica certezza: non era una brava bambina e non lo sarebbe stata mai.

Teresa aveva visto tutto.

Ma la bambina non se n’era andata. La stessa bambina comparsa tante volte nei suoi sogni, che ora le stava davanti, con le scarpe da ginnastica e gli occhi sgranati. Non era più un ricordo, ma qualcosa di tangibile e di reale, un’entità separata. Si trovavano tutte e due in una specie di limbo, probabilmente all’interno della sua mente. Un luogo che la pietra aveva scoperto, dove la bambina aveva vissuto. E se è qui e può parlare, pensò Teresa, significa dunque che è ancora viva? Viva dentro di me?

— Tu sai chi sono — disse la bambina in tono solenne.

Lo sapeva, naturalmente. La bambina era lei. O forse qualcosa di più, una specie di fantasma. Il fantasma di ciò che lei era stata. Il fantasma di ciò che lei non era mai diventata.

Era possibile vedere, capire. Era possibile persino perdonare, pensò Teresa. La bambina non aveva fatto niente di male. Ma la visione era stata troppo vivida e sconvolgente, e l’idea di ritornare in quel guscio vuoto, di essere di nuovo, in un certo senso, quella bambina lacera…

— Eppure devi farlo — dichiarò la bambina. — Vedere non è abbastanza.

No. Impossibile. Troppe cicatrici, una vita intera costruita su quel rifiuto. Impossibile rivivere tutto quel tormento, riprendere sulle spalle Carlos, sua madre, l’incendio… Era terribile.

Il fuoco e il senso di colpa avevano fatto di lei ciò che era. Era Teresa, e Teresa non si poteva mettere da parte.

La bambina mosse qualche passo verso di lei. In realtà non era più una bambina, ma piuttosto l’immagine riflessa da uno specchio, l’immagine di una ragazza confusa e spaventata. — Non sono morta. Ho attraversato il fuoco e sono arrivata in terraferma. Tu hai tentato di uccidermi. Tu hai tentato di uccidermi con tutte quelle pillole. Ma non ci riuscirai.

Vai via, pensò lei, presa da un senso di vertigine.

— Mi sono nascosta per troppo tempo — continuò la bambina.

— Non era colpa tua — ribatté Teresa, con la forza della disperazione. — Ora lo so. Io…

Ma la bambina scrollò la testa. — Non è abbastanza!

Un brivido di panico. — E allora?

— Riportami indietro. — La bambina avanzò ancora. — Toccami. — Tese le sue piccole mani. — Sii me stessa.

Teresa lottò per trovare qualcosa da ribattere, ma non ci riuscì. Venne sollevata bruscamente, accecata da una luce improvvisa e terribile, e di colpo si trovò circondata dal fumo, dagli spari e dal fetore acre e pungente della paura.

14

Ray le mise le mani sulle spalle. Lei sbatté subito le palpebre, aprendo gli occhi senza vedere. La pietra dei sogni era ancora ben stretta tra le sue mani.

Il contatto fu elettrico e straordinario, molto più potente di quello che avevano già vissuto nella chiesa di Cuiaba. Keller si sentì perso.

Risentì l’odore della terra calda e granulosa di un campo di manioca vicino a Rondonia, e seppe che il ricordo sarebbe stato sgradevole.

Fino al momento dell’imboscata, Keller aveva ogni ragione per credere che il giro di ricognizione si sarebbe concluso nel migliore dei modi.

Lo dicevano tutti. Anche Meg. Il loco co aveva spiegato che i posseiros avevano diradato le azioni in previsione di un’offensiva nel popoloso ovest, nella stagione della siccità. I sensori nascosti lungo le piste di rifornimento dei guerriglieri registravano ormai da un mese una diminuzione dell’attività. Il plotone di Keller aveva compiuto un giro di ricognizione in cinque villaggi strategici in mano alle forze governative, in quella povera terra agricola squassata dalla violenza. L’unico segno di azione nemica era stata una trappola a correggiato inesplosa, armata con cavo mononucleare. La ruggine aveva corroso il grilletto facendolo aprire. La disinnescarono e continuarono la marcia.

Insieme all’ovvia sensazione di sollievo, Keller avvertì anche una strana fitta di delusione. Non che fosse ansioso di vedere da vicino un combattimento, dato che non era un ingenuo e nemmeno uno stupido. I feriti che arrivavano all’ospedale di Cuiaba erano stati uno spettacolo abbastanza eloquente, in grado di fargli capire il significato della morte e del dolore. E non era nemmeno ciò che gli psicologi dell’esercito definivano un "soggetto ipermotivato". Si trovava lì solo perché il suo nome era stato sorteggiato.

Ma non poteva fare a meno di ripensare a ciò che gli aveva detto Megan la sera prima, nella sua cuccetta. — Là fuori, Ray, è molto facile compiere azioni di cui non si può essere orgogliosi.

Era più di quanto gli avessero detto gli altri. — Là fuori. — Quelle erano state le parole di Megan. Come se fosse stato il nome di un posto. Là fuori. Un mistero. Nessuno ne parlava, ma era al centro della loro vita. Venivano addestrati per affrontarlo, continuavano a sognarlo. Keller si ricordava almeno venti volte al giorno che, almeno a quel proposito, lui era vergine. E così si ripeteva nella mente tutte le domande più ovvie, quelle che non avrebbe mai potuto formulare a voce alta. Sarò coraggioso? Soffrirò? Morirò?

Alla fine il servizio di pattuglia era giunto, ma Keller cominciava a credere che le sue domande non avrebbero trovato risposta nemmeno quella volta. Era appunto assorto in un miscuglio di gratitudine e di delusione quando i suoi timori divennero di colpo realtà, e l’imboscata li colse tutti.

Stavano attraversando un campi di manioca verso il margine dell’autostrada contesa, la BR-364. Erano in formazione sparsa. In testa camminava un ragazzo di diciannove anni di nome Hooper. Hooper era appesantito dai sensori e da un dispositivo di localizzazione a elmetto che lo faceva assomigliare a uno scarafaggio, come aveva detto Byron. Hooper avrebbe dovuto dare l’allarme. Purtroppo era distratto. Nel bagliore della prima esplosione, Keller lo vide perdere tempo con i comandi a mano, forse nel tentativo di mettere a fuoco un’immagine sospetta o magari solo per giocare con lo schermo, colorare il cielo di rosso o altre fesserie del genere. Al corso, gli avvenimenti erano stati precisi. Non si doveva giocare. Era la prima regola. La reazione immediata di Keller al momento dell’imboscata fu dunque di irritazione nei confronti di Hooper. Hooper!, pensò. Hooper, pezzo d’idiota!

Lo spostamento d’aria lo buttò a terra.

Nei momenti successivi il tempo perse di valore. La fortuna lo aveva fatto cadere nel cratere di una bomba, grande come il suo corpo. Il riparo gli forniva una protezione appena sufficiente contro la pioggia di pallottole provenienti da una postazione tra gli alberi. Keller rotolò di fianco in tempo per vedere un proiettile colpire Logan, uno Spec/4 di colore. Rimase impietrito per l’orrore. Era come se Logan fosse stato investito da una grandinata di lame di rasoio. Aveva sangue dappertutto. Cadde a terra come un albero segato alla radice, ridotto in brandelli così piccoli da non fare neppure rumore.

Cristo, pensò Keller.

Il suo fucile era schiacciato nel fango sotto di lui. Lo tirò fuori per difendersi in qualche modo, cercando di non cedere al panico, ma non c’era niente di logico a cui sparare, solo un bosco in lontananza, il nastro deserto della strada, l’aria immobile che annunciava il crepuscolo. In quella calma temporanea, Keller udì il co che urlava ordini incoerenti da qualche parte alla sua sinistra. Gli ordini s’interruppero con un grido. Lui strisciò in avanti fino a che riuscì a vedere una parte del campo. Tutti erano a terra, interi o a pezzi. Hooper era a terra. Il co era a terra, e sanguinava. L’addetto alle comunicazioni, con la sua radio, si affannava a chiedere aiuto e copertura aerea. Combattuto tra l’ansia e la riluttanza, Keller si impose di cercare Megan.