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Alice indossava pantaloni di cotone larghi e un top bianco abbastanza ampio da permetterle di infilarlo con il solo braccio destro: il sinistro era inutilizzabile da quando era stata colpita dalla paralisi. I suoi riccioli bianchi erano stati pettinati. L’infermiera stava inginocchiata a terra, infilando i piedi della paziente in soffici pantofole.

— Leisha — esclamò Alice, mostrando piacere. — Buon compleanno.

— Volevo dirtelo prima io!

— Peccato — fece Alice. — Sessantasette anni.

— Già — commentò Leisha,, e le due donne si fissarono a vicenda, Leisha con la schiena diritta in pantaloncini bianchi e reggiseno, Alice che si sosteneva con una mano venata alla spalliera del letto.

— Buon compleanno, Alice.

— Leisha! — Era di nuovo Stella, con il suo atteggiamento da top-manager. — Hai una conferenza telefonica alle nove, quindi se devi parlare con quel giornalista…

Dall’angolo destro della bocca, tanto piano che Stella non la potesse sentire, Alice sussurrò: — Povero il mio Jordan…

Leisha mormorò di rimando: — Sai che a lui piace? - e si recò nella sala riunioni per incontrare il giornalista.

Lui la sorprese, dimostrando di essere approssimativamente un sedicenne, un ragazzetto dinoccolato con gomiti esageratamente appuntiti e una brutta pelle, vestito in quella che doveva essere l’ultima moda degli adolescenti: pantaloni corti a palloncino e una maglietta plastificata e decorata con piccoli pendenti in plastica a forma di scooter bianchi, rossi e blu. Stava appollaiato nervosamente su una sedia mentre Eric e Seth gli danzavano attorno suonando il flauto, malamente. Leisha mandò via i nipotini dalla stanza. Seth si allontanò allegramente, Eric corrugò la fronte e sbatté la porta. Nell’improvviso silenzio, Leisha si sedette dirimpetto al ragazzo.

— Che testata ha detto di rappresentare, signor… Cavanaugh?

— La rete della mia scuola — spifferò lui. — Solo che non l’ho detto alla signora con cui ho preso l’appuntamento.

— Ovviamente no — confermò Leisha. Che cos’erano i suoi piedi al confronto? Questo sì che era divertente. La prima intervista che concedeva in dieci anni e saltava fuori che si trattava di un ragazzo per il giornalino della scuola. A Susan sarebbe piaciuto moltissimo.

— Benissimo, allora, cominciamo — disse lei. Sapeva che il ragazzo non aveva mai parlato con un Insonne prima di allora. Ce l’aveva scritto dappertutto: la curiosità, il disagio, il giudicare furtivo. Nessuna invidia, però, in nessuna delle sue forme virulente. Quella era la cosa eccezionale: la sua assenza in quel ragazzino così poco eccezionale.

Era più organizzato di quanto non sembrasse. — Mia madre dice che era diverso da come è adesso. Dice che i Muli e perfino i Vivi odiavano gli Insonni. Come mai?

— Come mai lei non lo fa?

La domanda sembrò sorprenderlo profondamente. Corrugò la fronte e poi le lanciò un’occhiata di celato imbarazzo che disse a Leisha, ben più chiaramente delle parole, quanto lui fosse decoroso. — Be’, non vorrei proprio offenderla ma… perché io dovrei odiarla? Voglio dire, i Muli sono quelli che… gli Insonni sono in realtà solo una specie di Super-Muli, no?… che devono fare tutto il lavoro, A noi Vivi spetta di goderci i risultati, Vivere. Sa — disse in uno slancio di ingenua confidenza — non riesco proprio a capire perché i Muli non lo comprendono e odiano noi.

— Plus ga change, plus c’est la même chose.

— Che significa?

— Nulla, signor Cavanaugh. Ci sono Muli nella sua scuola?

— Nooo. Hanno scuole loro. — Guardò Leisha come se lei fosse stata tenuta a saperlo, e, ovviamente, lei lo sapeva. Gli Stati Uniti erano ormai una società a tre strati: i nullatenenti, che tramite il misterioso ed edonistico narcotico della Filosofia del Vivere Vero erano divenuti i beneficiari del dono dell’ozio. I Vivi, l’ottanta per cento della popolazione, che si erano liberati dell’etica del lavoro per sostituirla con una godereccia versione popolare dell’antica etica aristocratica: i fortunati non devono lavorare. Sopra di loro, oppure sotto, c’erano i Muli, Dormienti migliorati geneticamente che gestivano la macchina politica ed economica, come dettato dai, e in cambio dei, voti signorili della nuova classe oziosa. I Muli tiravano avanti: i loro robot lavoravano. Alla fine c’erano gli Insonni, quasi tutti invisibili all’interno del Rifugio, che venivano trascurati dai Vivi, se non dai Muli. L’intera organizzazione a trifoglio, Es, Io e Super Io, come qualcuno l’aveva sardonicamente etichettata, veniva assicurata dall’economica, onnipresente energia-Y che alimentava le fabbriche automatizzate rendendo possibile l’esistenza di una prodiga assistenza sociale che barattava pane e giochi del circo con voti. Tutta quella situazione, pensò Leisha, era tipicamente americana, essendo riuscita a combinare democrazia con materialismo, mediocrità con entusiasmo, potere con l’illusione del controllo dal basso.

— Mi dica, signor Cavanaugh, che cosa fate lei e i suoi amici con tutto il tempo libero che avete?

— Fare? — sembrò sconcertato.

— Sì. Fare. Oggi, per esempio. Quando avrà termi nato di registrare questa intervista, che cosa farà?

— Be’, lascerò a scuola la registrazione. L’insegnante la inserirà nell’olonotiziario scolastico, immagino. Se vorrà farlo.

— È un Vivo o un Mulo?

— Un Vivo, ovviamente — rispose, con un certo di sprezzo. Leisha si accorse che la sua stima stava calando rapidamente. — Poi potrei leggere qualcosa fino al termine della scuola, a mezzogiorno: ho quasi imparato a leggere, ma non ancora bene. È abbastanza inutile, ma mia madre vuole che impari. Poi c’è la corsa di scooter a mezzogiorno, ci andrò con qualche amico…

— Chi le paga e le organizza?

— Il nostro deputato alla camera bassa locale, ovviamente. Cathy Miller. Lei è un Mulo.

— Ovviamente.

— Poi qualche amico darà una fantastica narcofesta, il nostro uomo al congresso ha fatto circolare della roba nuova dal Colorado o da un altro posto del genere, poi c’è l’olovideo a realtà virtuale che voglio fare…

— Come si chiama?

— Tamarra dei Mari di Marte. Lei non andrà a vederlo? È una gallata.

— Forse lo farò — rispose Leisha. Piedi, giornalisti, Tamarra dei Mari di Marte. Moira, la figlia di Alice, era emigrata su una colonia marziana. — Lei sa che in realtà non ci sono mari su Marte, vero?

— Davvero? — fece lui, del tutto privo di interesse. — Poi andrò a giocare a palla con qualche amico, e poi io e la mia ragazza andremo a farci una scopata. Dopo, se ci sarà tempo, potrei raggiungere i miei genitori nella casetta di mia madre perché terranno un ballo. Se non ci sarà tempo… signorina Camden? C’è qualcosa di divertente?

— No — disse Leisha soffocando una risatina. — Mi dispiace. Nessun aristocratico del Diciottesimo secolo avrebbe potuto avere un carnet sociale più pieno.

— Già, be’, io sono un Vivo gallo — disse il ragazzino modestamente. — Ma dovrei essere io a fare domande a lei. Allora, c’è… no, aspetti… che cos’è questa… Fondazione che lei dirige? Che cosa fa?

— Chiede ai mendicanti perché sono mendicanti e fornisce fondi per quelli che vogliono essere qualcosa d’altro.

Il ragazzo sembrò sconcertato.

— Se, per esempio, lei volesse diventare un Mulo — spiegò Leisha — la Fondazione Susan Melling potrebbe aiutarla a iscriversi a scuola, finanziare potenziamenti genetici per lei, qualsiasi cosa fosse necessaria.

— Perché mai dovrei volere una cosa simile?

— Già, perché? — ribalté Leisha. — Ma alcune persone lo vogliono.

— Nessuno di mia conoscenza — rispose deciso il ragazzo. — Mi sembra una cosa un po’ bacata. Un’altra domanda. Perché lei lo fa? Gestire questa specie di fondazione?

— Perché ciò che i forti devono ai mendicanti è chiedere a ognuno di loro perché è un mendicante, e agire di conseguenza — rispose Leisha misurando le parole. — Perché la comunità è il presupposto, non il risultato, e soltanto attribuendo all’improduttività la stessa individualità dell’eccellenza, e agendo di conseguenza, si colma l’obbligo nei confronti dei mendicanti di Spagna.