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Mi stesi nuovamente sulla sdraio e allungai una mano per prendere un drink. I fiori azzurri più vicini si spinsero verso la mia mano.

— Stai facendo avere loro un’erezione — disse Stephanie attraversando la portafinestra. — Oh, biscotti all’anice! Ti dispiace se ne do uno a Katous?

Il cane la seguì dalla fresca oscurità del mio appartamento, si bloccò, strizzando gli occhi nella splendente luce del sole, e annusò l’aria sospettoso. Era chiaramente, aggressivamente, illegalmente modificato a livello genetico. L’Ente governativo per il controllo degli Standard Genetici poteva consentire qualche aggiustamento alla moda sui fiori, ma non con i tipi animali superiori ai pesci. Le regole erano chiarissime, sottolineate da cause legali, dalle durissime sanzioni pecuniarie, che le rendevano ancora più chiare. Nessuna modificazione genetica che causi dolore. Nessuna modificazione genetica che crei un armamento, nella più ampia delle definizioni. Nessuna modificazione genetica che "muti l’aspetto fisico o fondamentali attività interne tali da creare alterazioni che deviino in modo significativo, la creatura dagli altri membri, non soltanto della sua specie, ma anche della sua razza". Un collie poteva essere addestrato a correre su una sola zampa, ma avrebbe fatto bene ad assomigliare ancora a Lassie.

E, in nessun caso, una qualsiasi modificazione genetica che fosse ereditaria. Nessuno voleva un altro fiasco come quello degli Insonni. Perfino i miei fiori "penili" erano sterili. Gli esseri umani modificati geneticamente, noi Muli, sono stati tutti creati individualmente, oggetti da collezione unici creati "in vitro". Così viene mantenuto l’ordine nel nostro mondo ordinato. Così afferma il giudice capo della Corte Suprema, Richard J. Milano, scrivendo la sentenza nella causa per LINBECKER CONTRO ENTE GOVERNATIVO PER IL CONTROLLO DEGLI STANDARD GENETICI. "L’umanità non deve essere alterata al di là della riconoscibilità, perché vorrebbe dire perdere ciò che significa essere umani. Due mani, una testa, due occhi, due gambe, un cuore funzionante, la necessità di respirare, mangiare e defecare, questa è l’umanità nella sua continuità. Noi siamo ’gli’ esseri umani."

O, in questo caso, "i" cani. Eppure ecco lì Stephanie, teoricamente una rappresentante della legge, in piedi sulla mia terrazza affiancata da una vivente violazione da galera della ECGS, dal pelo rosa. Katous aveva quattro adorabili orecchie rosa, diritte in modo identico, auricolari Rockettes. Aveva un simpatico codino da coniglio in pelo rosa. Aveva immensi occhi marroni, di una dimensione tre volte maggiore a qualsiasi occhio da cane che il giudice Milano avrebbe approvato, che gli conferivano uno sguardo languido e afflitto. Era talmente adorabile e dall’aria così vulnerabile che avevo voglia di prenderlo a calci.

— Ho sentito che David se n’è andato — disse Stephanie, chinandosi per dare da mangiare il biscotto all’anice a quell’ammasso di pelo tremante. Mi chiesi se Stephanie sapesse che katous era il termine arabo per "gatto". Certo che lo sapeva.

— David se n’è andato — confermai io. — Eravamo arrivati a un bivio.

— E chi sarà il prossimo?

— Nessuno. — Sorseggiai il mio drink senza offrirne uno a Stephanie. — Penso di vivere da sola per qualche tempo.

— Davvero? — Toccò un fiore color acquamarina: il dito venne avvolto dal soffice petalo tubolare. Stephanie sogghignò. — Quel dommage. Che mi dici di quel fornitore di software tedesco con cui hai parlato tanto a lungo alla festa di Paul?

— Che mi dici del tuo cane? — ribattei mordace. — Non è tremendamente illegale per essere il cane di uno sbirro?

— Ma tanto grazioso. Katous, di’ ciao a Diana.

— Ciao — disse Katous.

Staccai lentamente il bicchiere dalle labbra.

I cani non sapevano parlare. La struttura vocale non lo permetteva, la legge non lo permetteva, il QI canino non lo permetteva. Tuttavia il "ciao" latrato da Katous era stato perfettamente chiaro. Katous sapeva parlare.

Stephanie si appoggiò contro la portafinestra, godendosi l’effetto della sua granata. Avrei dato qualsiasi cosa per essere in grado di ignorarla, per proseguire con una conversazione neutrale e disinteressata. Non ci riuscii.

— Katous — dissi io — quanti anni hai?

Il cane mi fissò con enormi occhi afflitti.

— Dove abiti, Katous?

Nessuna risposta.

— Sei modificato geneticamente?

Nessuna risposta.

— Katous è un cane?

C’era forse un’ombra di triste sconcerto nei suoi occhi marroni?

— Katous, sei felice?

Stephanie disse: — Il suo vocabolario è di sole ventidue parole. Però ne capisce di più.

— Katous, vuoi un biscotto? Biscotto, Katous?

Il cane agitò il ridicolo codino e si mise a piroettare sul posto. Non aveva unghie sulle zampe. — Biscotto! Per favore!

Io allungai un biscotto della stessa marca delle madeleines di Proust. Magnifiche: croccanti, fragranti di anice, ricche di burro. Katous lo prese con gengive rosate, prive di denti. — Grazie, signora!

Guardai Stephanie. — Non è in grado di difendersi. È un ritardato mentale, sveglio abbastanza da saper parlare, ma non a sufficienza da capire il suo mondo. A che serve?

— A che servono i tuoi fiori penili? Dio, se sono sensuali! Te li ha dati David? Sono magnifici.

— Non me li ha dati David.

— Li hai comperati tu? Dopo che lui se n’è andato, immagino. Una forma di sostituzione?

— Un promemoria della fallibilità maschile.

Stephanie rise. Sapeva che stavo mentendo, ovviamente. David non era mai stato fallibile in quel campo. O in qualsiasi altro. Il fatto che se ne fosse andato era colpa mia. Non sono una persona facile con cui vivere. Stuzzico, ficco il naso dappertutto, litigo, cerco freneticamente debolezze da giustificare le mie. Peggio ancora, lo ammetto solamente ben dopo che è accaduto il fatto. Distolsi lo sguardo da Stephanie e fissai attraverso un varco tra i fiori la Baia di San Francisco, tenendo il drink ghiacciato in mano.

Suppongo che sia una grave pecca del mio carattere, quella di non sopportare di restare per più di dieci minuti nella stessa stanza con una persona come Stephanie. Lei è intelligente, piena di successo, spiritosa, audace. Gli uomini le cadono ai piedi e non soltanto per il suo aspetto modificato geneticamente, capelli rossi, occhi viola e gambe lunghe un metro e mezzo; nemmeno per la sua intelligenza potenziata. No, lei possiede la forma estrema di attrazione per i logori maschi: niente cuore. Rappresenta una sfida perenne, una varietà infinita che non stanca il cliente perché il prezzo è costantemente al rialzo. Non può essere realmente amata e non può essere realmente fatta soffrire, perché non gliene importa niente. L’indifferenza accoppiata a quelle gambe, è irresistibile. Ogni uomo pensa che lui sarà diverso per lei, ma non lo è mai.

"La gelosia" aveva sempre detto David "corrode l’anima."

Io gli avevo sempre risposto che Stephanie era priva di anima. Aveva ventotto anni, sette meno di me, il che significava sette anni di progresso nell’evoluzione tecnologica disponibile dell’Homo sapiens. Erano stati sette anni molto fertili. Suo padre era Harve Brunell, della Brunell Power. Per la sua unica figlia aveva acquistato ogni modificazione genetica sul mercato e alcune di esse non erano arrivate proprio legalmente. Stephanie Brunell rappresentava la penultima realizzazione della scienza americana, della potenza e dei valori.